martedì 3 aprile 2012

Breve saggio sulla legislazione borbonica


A cura del dott. Ubaldo Sterlicchio

Oggi, allorquando in Italia, nella pubblica amministrazione o nella macchina dello Stato, qualcosa non va, oppure se una legge appare ingiusta, meschina, pignola, tormentatrice del cittadino, chi scrive su riviste o quotidiani se ne viene fuori con il luogo comune: «leggi borboniche», dando a questa dizione un significato totalmente negativo.

Ma non c’è nulla di più sbagliato, perché, nel 1861, a seguito dell’unificazione politico-territoriale della Penisola, l’intera struttura statale italiana fu modellata su quella piemontese; l’Ordinamento giuridico napoletano fu, quindi, azzerato e delle leggi borboniche non fu conservato un bel niente! Eppure, si continua a parlare spregiativamente di «stato borbonico», di «leggi borboniche», di «burocrazia borbonica», di «carceri borboniche», come in un’estasi di ignoranza o, peggio, di malafede.

Il regno sabaudo dopo le annessioni

Se sfogliamo, infatti, un vocabolario della lingua italiana, constatiamo che il termine borbonico viene qualificato come aggettivo dispregiativo che, riferito al ramo della famiglia che regnò su Napoli e l’Italia meridionale dal 1734 al 1860, ha oramai acquisito l’accezione di retrogrado, oscurantista, reazionario, repressivo, ottuso, ingiusto, antiquato, inefficiente e... chi più ne ha più ne metta!

Eppure, nelle nostre civili Due Sicilie, le cose stavano ben diversamente, per cui credo che sia giunto il momento di confutare definitivamente questa calunnia, frutto solo di una propaganda denigratoria per i governanti ed i legislatori dell’ex Regno delle Due Sicilie.

Infatti, dopo un secolo e mezzo dall’annessione del Meridione d’Italia al Piemonte, è possibile affermare, con cognizione di causa, che le leggi napoletane erano ottime, tanto che, nel 1852, l’imperatore francese Napoleone III inviò a Napoli una speciale commissione di giuristi e di alti funzionari, perché studiassero proprio la bontà di quelle leggi.([1]) Peraltro, nel 1902, lo storico inglese Bolton King (1860-1937) sostenne che «nessuno Stato in Italia poteva vantare istituzioni così progredite come quelle del Regno delle Due Sicilie»;([2]) e, pochi anni fa, il compianto professor Giuseppe Cicala era solito affermare che «per far funzionare il Sud, basterebbe far funzionare bene ciò che ci hanno lasciato i Borbone: leggi e regolamenti compresi».

Lo Stato borbonico, infatti, eccelleva sotto gli aspetti sociale, culturale, industriale, economico, amministrativo ed aveva delle leggi all'avanguardia in numerosi settori; in particolare, il sistema giudiziario meridionale è stato riconosciuto da molti studiosi come il più avanzato dell’Italia pre-unitaria, in linea con la grandissima scuola meridionale di diritto. Sin dal 1774, era stato introdotto nell’impianto processuale napoletano l’istituto della Motivazione delle Sentenze, in linea con le teorie illuministe del giurista napoletano Gaetano Filangieri (1753-1788); e quando la tortura giudiziaria vigeva ancora con tutta la sua ferocia nel cosiddetto liberale Piemonte, le leggi borboniche già da un pezzo l’avevano vietata. Era stabilito, inoltre, che la corrispondenza privata non potesse venire in alcun modo manomessa e che non fosse lecito imprigionare un povero debitore senza un giudizio di merito che ne avesse accertato la frode.([3])

È peraltro sufficiente consultare, presso l’Archivio di Stato di Napoli - fondo Archivio Borbone - la «Collezione delle Leggi e de’ Decreti Reali del Regno delle Due Sicilie», per comprendere la modernità e l’elevato livello di civiltà giuridica che caratterizzavano l’Ordinamento duosiciliano.

A titolo esemplificativo, menzionerò qui di seguito alcune leggi borboniche le cui materie, come si vedrà, risultano ancora oggi attualissime.

In campo economico-sociale, nel 1789 (qualche mese prima della Rivoluzione francese), il re Ferdinando IV di Borbone (1751-1825) emanò il Codice-statuto delle Seterie di San Leucio, presso Caserta, per regolamentarvi la vita ed il lavoro degli operai e dei loro nuclei familiari.([4]) La colonia di San Leucio fu un progetto ideato e voluto dallo stesso re. L’opificio, conosciuto poi in tutta Europa per l’elevato livello tecnologico ed i cui pregiati manufatti venivano largamente esportati, divenne il fiore all’occhiello dell’industria del Sud. Si trattò di un vero e proprio miracolo (non solo sotto il profilo economico, ma anche sotto l’aspetto sociale), che stupì i contemporanei, realizzato sulla base delle teorie socio-economiche del già menzionato illuminista napoletano Gaetano Filangieri.


Gaetano Filangieri

Il Codice Leuciano, ben presto tradotto in greco, francese e tedesco, anticipò di quasi un secolo le prime leggi sul lavoro varate in Inghilterra (previdenza, assistenza sanitaria, case ai lavoratori, asili nido, istruzione elementare obbligatoria e gratuita per i fanciulli). Esso perseguiva, infatti, obiettivi di convivenza tipicamente moderni e mirava a realizzare una sorta di socialismo evangelico: sanciva cioè, per i componenti della colonia, la perfetta uguaglianza, con l’unica possibilità di differenziazione basata sul merito. Le giovani coppie avevano diritto di prelazione per sistemarsi. Fu così costruito un vero e proprio stabilimento di moderna concezione, che richiamò gente da fuori e famiglie intere in cerca di lavoro e reddito garantito. Lo statuto prevedeva un criterio retributivo, certamente parsimonioso, però in anticipo sui tempi, ed una specie di piano contro il pauperismo del Sud; perché l’iniziativa «dev’essere» – sono parole del re Ferdinando – «utile alle famiglie, alleviandole da’ pesi, che ora soffrono, e portandole ad uno stato tale da potersi mantener con agio, e senza pianger miseria, come finora è accaduto in molte delle più numerose e oziose». Tessuti finissimi, stoffe damascate, lampassi preziosi uscirono per decenni dalle fabbriche leuciane e ben due terzi della produzione totale erano destinati all’esportazione verso gli Stati Uniti d’America. Se mai nella vostra vita aveste la possibilità di toccare la bandiera americana situata nella Sala Ovale della Casa Bianca o quella inglese di Buckingam Palace, sappiate che state toccando le pregiate sete provenienti da San Leucio. E non solo. Dalle seterie san leuciane provengono anche tessuti che si possono ritrovare in Vaticano e al Quirinale, per citare altri esempi dell’arte della piccola comunità. Dal 1997, San Leucio è Patrimonio dell’Umanità.

Con la Convenzione del 14 febbraio 1838, stipulata con la Francia e con l’Inghilterra, il Regno delle Due Sicilie si obbligò a combattere con le armi – se necessario – e con danaro pubblico, la tratta degli schiavi. Ferdinando II (1810-1859) volle in questo modo contrastare quello che lui definiva un «traffico abbominevole» e, nell'autunno del 1839, il re Borbone promulgò la «Legge per prevenire e reprimere i reati relativi al traffico conosciuto sotto il nome di Tratta de' negri».([5]) Questa normativa, costituita da 15 articoli, prevedeva pene diverse a seconda che il bastimento, utilizzato per la tratta, fosse bloccato prima della partenza o venisse catturato dopo, in mare, senza che però il traffico fosse stato portato a termine. Potevano beneficiare di sconti di pena sostanziale i membri dell'equipaggio che avessero avvisato per tempo la pubblica sicurezza; tali benefici, però, non potevano mai essere applicati in favore dell'armatore, del capitano, degli ufficiali, del proprietario della nave, dell'assicuratore e del prestatore di capitali. Incorreva nelle sanzioni anche chi fabbricava, vendeva o acquistava i ferri da utilizzarsi nella tratta. La pena era più grave, poi, se qualche schiavo negro fosse stato fatto oggetto di maltrattamenti o di omicidio. La Gran Corte criminale, competente per il giudizio in merito, aveva anche il compito di provvedere alla liberazione degli schiavi di colore, ai quali veniva consegnata gratuitamente «copia legale della decisione di libertà». Ricordo che questa era l’epoca in cui il commercio negriero era molto fiorente, soprattutto negli Stati Uniti d’America, ove lo rimase fino alla conclusione della Guerra di Secessione (1865).

Ferdinando II di Borbone

Una legge pionieristica, promulgata il 17 dicembre 1817 dal re Ferdinando I di Borbone,([6]) alla quale seguì il decreto n. 10406 del 19 ottobre 1846 del re Ferdinando II,([7]) regolamentava la concessione della cittadinanza agli stranieri. Essa, composta da soli tre articoli, fu la prima normativa della storia sull’immigrazione. Il suo principio informatore era quello secondo cui, per poter acquisire la cittadinanza nel Regno, uno straniero doveva risultare concretamente utile alla collettività ed, in nessun caso, poteva costituire un problema sociale od un peso economico per lo Stato. In particolare, all’articolo 1, così recitava: «Potranno essere ammessi al beneficio della naturalizzazione nel nostro regno delle Due Sicilie: 1. gli stranieri che hanno renduto, o renderanno importanti servizi allo Stato; 2. quelli che porteranno dentro lo Stato de’ talenti distinti, delle invenzioni, o delle industrie utili; 3. quelli che avranno acquistato nel regno beni stabili su’ quali graviti un peso fondiario almeno di ducati cento all’anno; al requisito indicato ne’ suddetti numeri 1, 2, 3 debbe accoppiarsi l’altro del domicilio nel territorio del regno almeno per un anno consecutivo; 4. quelli che abbiano avuto la residenza nel regno per dieci anni consecutivi, e che provino avere onesti mezzi di sussistenza; o che vi abbiano avuta la residenza per cinque anni consecutivi, avendo sposata una nazionale». Questa legge costituisce anche la prova inconfutabile che, prima dell’unità d’Italia, non solo i meridionali non conoscevano il triste fenomeno dell’emigrazione, ma che numerosi erano i casi di emigranti, dall’Italia settentrionale e dal resto del mondo, che venivano a stabilirsi al Sud. Ci è dato, infatti, di sapere che il Regno delle Due Sicilie era meta ambita da svizzeri, piemontesi, genovesi, russi, austriaci, spagnoli, arabi, slavi e, soprattutto, francesi ed inglesi. Tali flussi migratori verso il nostro Sud forniscono, inoltre, un dato inequivocabile: lo Stato meridionale era ricco e felice, vi era pace sociale e lavoro. La differenza di cultura, di religione e di lingua non erano motivi di discriminazione né, tanto meno, di emarginazione. Possiamo, quindi, affermare con orgoglio che la legislazione del Regno delle Due Sicilie, in materia di concessione della cittadinanza agli stranieri ed ai loro figli, era avanti, rispetto a quella attualmente in vigore nello Stato Italiano (ad iniziare dalla legge del 5 febbraio 1992, n. 91), di ben centosettantacinque anni!

Un decreto emanato il 3 maggio 1832 dal re Ferdinando II di Borbone, analizzava e regolamentava la situazione dell’igiene pubblica e della raccolta dei rifiuti dell’intero Regno delle Due Sicilie.([8]) Un’ordinanza della prefettura di polizia disciplinava, poi, nei dettagli, lo spazzamento e l’innaffiamento delle strade, compresa una sorta di raccolta differenziata ante litteram per il vetro. In particolare, a Napoli, il prefetto dell’epoca, Gennaro Piscopo, ordinò ai napoletani: «Tutt’i possessori, o fittuarj di case, di botteghe, di giardini, di cortili, e di posti fissi, o volanti, avranno l’obbligo di far ispazzare la estensione di strada corrispondente al davanti della rispettiva abitazione, bottega, cortile, e per lo sporto non minore di palmi dieci di stanza dal muro, o dal posto rispettivo. Questo spazzamento dovrà essere eseguito in ciascuna mattina prima dello spuntar del sole, usando l’avvertenza di ammonticchiarsi le immondizie al lato delle rispettive abitazioni, e di separarne tutt’i frantumi di cristallo, o di vetro che si troveranno, riponendoli in un cumulo a parte». Nel dettagliato documento del prefetto di Napoli, composto da 12 articoli, venivano indicate le modalità della raccolta e chi ne era responsabile; si vietava di gettare dai balconi materiali di qualsiasi natura, comprese le acque utilizzate per i bagni, e di lavare o di stendere i panni lungo le strade abitate; venivano, infine, stabilite le pene per le contravvenzioni, non esclusa la detenzione. Questa legge borbonica aveva già risolto il problema della spazzatura quasi duecento anni or sono, facendo sì che Napoli fosse la città più pulita d’Europa.

In campo giudiziario, i re Borbone legiferarono e si adoperarono per la più corretta amministrazione della Giustizia, garantendo in primis l’assoluta «indipendenza della magistratura» dagli altri poteri dello Stato. L’articolo 194 della legge del 29 maggio 1817, infatti, così recitava: «L’Ordine Giudiziario sarà subordinato solamente alle autorità della propria gerarchia. Niun’altra autorità potrà frapporre ostacolo o ritardo all’esercizio delle funzioni giudiziarie o alla esecuzione dei giudicati».([9]) Inoltre, Ferdinando II, ben sapendo «che nella pubblicità dei giudizi è riposta la più solenne guarentigia della loro rettitudine, e che codesta pubblicità è la scuola migliore che aver possa un popolo... ordinò e richiamò essenzialmente in osservanza la discussione pubblica di tutte le cause, mirando anche al motivo della gloria del foro, affinché non scemasse il pregio dell’eloquenza degli avvocati con lasciar trasandata la perorazione delle cause».([10]) Ai sensi dell’articolo 196 della stessa legge del 1817 innanzi menzionata, nessuno poteva essere privato di una proprietà o di alcuno dei diritti accordatigli dalle leggi dello Stato, se non per effetto di una sentenza o di una decisione passata in giudicato.

Accanto a questi veri e propri primati, sempre in campo giuridico e normativo, è doveroso quantomeno menzionare: il primo Codice Marittimo del mondo (1781), la cui stesura fu curata da Michele Iorio; il primo Codice Militare d’Italia, promulgato nel 1820.

Ricordo, infine, gli usi civici e l’istituto dell’enfiteusi, in virtù dei quali la terra veniva concessa in uso a chi la lavorava, per il sostentamento della propria famiglia, dietro pagamento della cosiddetta decima; in sostanza, i contadini erano detentori ed usufruttuari dei terreni demaniali, che restavano però sempre di proprietà pubblica. A quest’ultimo riguardo, non si può prescindere dal ricordare la Prammatica del 20 settembre 1836, di Ferdinando II, sul demanio e sugli usi civici, dal cui testo emerge chiaramente una caratteristica peculiare del Diritto napoletano: la salvaguardia dei diritti dei più deboli dalle prepotenze e dai soprusi dei più forti.([11])

In conclusione, si può ben affermare che noi meridionali abbiamo ereditato, dalla struttura statale e dalle leggi su cui si reggeva il regno borbonico, un lascito molto prezioso e, cioè, la consapevolezza e l’orgoglio di essere i discendenti e gli eredi di un popolo civile, laborioso, prospero e pacifico (mai aggressore, ma sempre aggredito!). Pertanto, è del tutto ingiusto attribuire all’aggettivo borbonico un significato negativo. Al contrario ed in particolare, le leggi borboniche, semplici ed efficacissime, affondavano le radici nella culla del vero diritto (quello naturale) e, soprattutto, nella legge perfetta, quale è la costituzione universale di Dio, il Vangelo. Anche se laico, quel Regno aveva alla base gli elementi portanti di uno stato di amore fatto di tolleranza, mutuo soccorso ed equità sociale, propri del Messaggio di Gesù Cristo. E certamente fu questa una delle peculiarità che decretarono la condanna morte del Regno delle Due Sicilie, in un mondo in cui le potenze capitalistiche ed ateo-massoniche dell’epoca stavano per sferrare la più vile e violenta delle aggressioni agli antichi Stati cattolici d’Europa.

Telese Terme, marzo 2012.([12])

dott. Ubaldo Sterlicchio



[1] Carlo Alianello, “La conquista del Sud”. Ed Rusconi, Milano, 1982, pag. 109.

[2] Doctor J., “Diritto e carceri nelle Due Sicilie”, in http://www.frontemeridionalista.net, 4 gennaio 2011.

[3] Carlo Alianello, op.cit., pag. 109.

[4] Autori vari, “San Leucio e l’arte della seta”. Ed. Pierro, Gruppo editori Campani, Legatoria del Sud, Ariccia (Roma) 1996.

[5] “Collezione delle Leggi e de’ Decreti Reali del Regno delle Due Sicilie”, Napoli, 1839.

[6] “Collezione delle Leggi e de’ Decreti Reali del Regno delle Due Sicilie”, Napoli, 1817. Cfr. anche Magdi Allam, “Che fare dell’immigrazione: la ricetta di Ferdinando I”, Corriere della sera, 10 marzo 2008.

[7] “Collezione delle Leggi e de’ Decreti Reali del Regno delle Due Sicilie”, Napoli, 1846. Cfr. anche E. Gemminni, “La legge sugli immigrati? Ci pensarono i Borbone”, Il Frizzo di Lucera (FG), 7 marzo 2009.

[8] “Collezione delle Leggi e de’ Decreti Reali del Regno delle Due Sicilie”, Napoli, 1832: Decreto del 3 maggio 1832 emanato da Ferdinando II. Cfr. inoltre Chiara Palmerini, “Napoli pulitissima (era il 1832)”, Panorama, 7 febbraio 2008.

[9] “Collezione delle Leggi e de’ Decreti Reali del Regno delle Due Sicilie”, Napoli, 1817.

[10] Carlo Alianello, op.cit., pagg. 167-168.

[11] Autori vari, “La storia proibita”. Ed. Controcorrente, Napoli, 2008, pag. 67, in nota 45.

[12] Articolo pubblicato sulla Rivista mensile L’Altra Voce, direttore dottor Domenico Longo, numero di marzo 2012.

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