venerdì 23 dicembre 2016

Blanqui. La borghesia alla sbarra


Romano Guatta Caldini


Parigi, 1832. Processo dei 15



Giudice: professione?

Blanqui: proletario

Giudice: domicilio fisso?

Blanqui: prigione

Giudice: perché è insorto?

Blanqui: «la prova più significativa del fatto che quest’ordine di cose non è istituito se non in vista dello sfruttamento del povero da parte del ricco, che non si è ricercata altra base se non quella di un materialismo ignobile e brutale, è che l’intelligenza è colpita da ilotismo; effettivamente, essa è una garanzia di moralità, e la moralità introdotta inavvertitamente in un simile sistema non potrebbe entrarvi se non come elemento infallibile di distruzione.»(1)

Mentre la sinistra più o meno antagonista  ha continuato a relegarlo fra gli eterni quarantottisti la destra radicalmente intesa lo ha cancellato dal suo DNA.
Ma se Babeuf è stato l’antesignano dell’egualitarismo sociale, Blanqui fu senza dubbio il precursore del volontarismo che dai Fasci d’Azione Internazionalista (1914) in poi caratterizzò gli ambienti nazionalrivoluzionari italiani e non.
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Nato a Puget-Théniers  l’otto  febbraio 1805, Louis-Auguste Blanqui [nel ritratto a fianco] si laureò in medicina a soli diciannove anni.
Di formazione repubblicana, approdò al socialismo attraverso l’assimilazione babouvista dell’ineluttabilità della “guerra tra sfruttati e sfruttatori”.

Prima di essere teorico Blanqui fu uomo d’azione, nel 1830 partecipò alla cacciata di Carlo X e nel ’39 venne condannato all’ergastolo per sollevazione armata.
Amnistiato, fu protagonista dei moti del ’48 in cui tentò un nuovo colpo di stato per destituire il monarca Luigi Filippo.
Riuscì a sottrarsi alla cattura rifugiandosi in Belgio.

E’ durante il soggiorno belga che riesce a dedicarsi alla stesura dei principi dell’ insorgenza rivoluzionaria.
Non la massa ma un pugno di cospiratori avrebbero posto in atto la rivolta, preparando la strada alla lotta di popolo per l’edificazione di un  Socialismo di stampo libertario.
In seguito, i firmatari del Manifesto gli rimproverarono la concezione dell’élite rivoluzionaria, che non avrebbe guidato le masse, ma avrebbe offerto a queste le basi necessarie per l’avvento rivoluzionario.
Teoria questa, che in Italia troverà discepoli del calibro di Pisacane e per certi versi Mussolini.

E’ quest’ultimo a offrirci un’accurata descrizione di Blanqui: «Piccolo, esile, con la testa rasata come quella di un monaco, degna del pennello di Holbein. Occhi perduti nelle occhiaie fonde dardeggianti lampi fulvi. Viso ammantato di un pallore malaticcio. Corpo piegato sotto il triplice peso delle sofferenze fisiche, delle torture morali e della costituzione rachitica. Nulla era in Blanqui che rivelasse il cospiratore tenace e l’oratore indomabile dei clubs rossi.
La rivoluzione in lui era un culto.
Egli non attirava, dominava.
La sua voce non affascinava. Era stridente, acuta, sibilante, metallica.
Comunicava tuttavia la febbre. Sentiva di lui, del suo carattere, aspro, selvaggio, enarmonico.
Voce che segava sovente i nervi.
La sua caratteristica era la violenza fattistica. Vale a dire nutrita di fatti. Faceva discorsi energici, presentava mozioni virulente. Era sempre e dovunque freneticamente applaudito. Aveva un’immaginazione furiosa, uno spirito turbolento». (2)

Tornato in patria, tra una carcerazione e l’altra, tanto da  guadagnarsi  l’appellativo d’Infermo, continuò l’opera di sovversione.
Il 31 ottobre 1870 guidò l’occupazione della sede municipale a  l’Hôtel de Ville, instaurando un governo di rivoltosi da lui presieduto. La reazione non si fece attendere e per ritorsione l’esercito trasformò una manifestazione operaia in una carneficina.
Ma se l’alternativa alla repressione monarchica era la dittatura borghese, c’era poco da stare allegri.

E questo Blanqui lo denunciò ripetutamente: «La repubblica sarebbe una menzogna se dovesse essere la sostituzione di una forma di governo a un’altra. Non basta cambiare le parole, bisogna cambiare le cose. La repubblica è l’emancipazione degli operai, è la fine del regime dello sfruttamento, è l’avvenimento di un ordine nuovo che libererà il lavoro dalla tirannia del capitale. Libertà, uguaglianza, fraternità, questo motto che brilla sui frontoni dei nostri edifici non deve essere una vana decorazione teatrale. Non più illusioni!
Non vi è libertà quando si muore di fame. Non vi è uguaglianza quando l’opulenza fa scandalo a fianco della miseria. Non vi è fraternità quando l’operaio coi suoi figli affamati si trascina alle porte dei palazzi. Del lavoro e del pane! L’esistenza del popolo non può rimanere alla mercé dei terrori e dei rancori del capitale.»(3)

Scagliò le  sue principali invettive durante i processi che lo vedevano protagonista, trasformandosi da accusato in accusatore.
Precursore  del “processo di rottura”, Blanqui fece  dell’aula giudiziaria una tribuna dell’agitazione rivoluzionaria. Il suo processo in un’azione di propaganda.
Tra i vari primati di Blanqui c’è quello di essersi occupato  di una branca della scienza allora inesplorata, forse sarebbe meglio dire “gaia scienza”.
Dieci anni prima dell’uscita del capolavoro nietzscheano, durante la prigionia a Fort du Taureau, Blanqui scrive un opuscolo dal titolo, L’ eternité par les astres: «Ogni astro, qualunque astro esiste un numero infinito di volte nel tempo e nello spazio, non in una soltanto delle sue forme, ma così com’ è in ognuno dei momenti della sua esistenza, dalla nascita alla morte. E tutti gli esseri sparsi sulla sua superficie, grandi e piccoli, vivi o inanimati, condividono il privilegio di questa perennità. La terra è uno degli astri.
Ogni essere umano è dunque eterno, in ognuno dei momenti della sua esistenza. Quello che io ho scritto in questo momento nella mia cella , l’ ho scritto e lo scriverò per l’ eternità, sullo stesso tavolo, con la stessa penna, vestito degli stessi abiti, in circostanze uguali. Tutte queste terre sprofondano, una dopo l’ altra, nelle fiamme che le rinnovano, per rinascere e sprofondare ancora, scorrimento monotono di una clessidra che si gira e si svuota eternamente da sola».(4)

Il 27 marzo del 1871, viene eretta la Comune di Parigi. All’elezione del consiglio sono i blanquisti ad avere la meglio, ma il sogno di una repubblica sociale ha vita breve.
Le forze governative approfittando della disorganizzazione dei rivoluzionari entrano dalle porte sguarnite della città a nord-est. A opporre resistenza ci pensano i militi della Guardia Nazionale: studenti, operai,artigiani piccoli commercianti, che abbracciati fucili e bastoni tentarono di difendere la Comune fino all’ultimo uomo.  Schiacciato nel sangue ogni vagito rivoluzionario, Blanqui si trova nuovamente rinchiuso.

La svolta avviene nell’aprile del 1879 con la sua  elezione a  deputato nella circoscrizione di Bordeaux. Il governo decide di non convalidare la nomina del pericoloso comunardo che viene comunque liberato grazie alle pressioni del mondo operaio.
Stanco e malato, l’uomo che coniò il motto “né dio né padrone” morì libero all’età di 76 anni di cui 32 passati in carcere. Oggi lo spirito inquieto riposa al Père Lachaise, fra le anime ribelli di tutte le epoche.

Note
(1) Blanqui: “Textes choisi” – Editions Sociales, Paris l955. pp. 85-92
(2) Benito Mussolini – L’eminente rivoluzionario del frontone
(3) Ibidem
(4) Giovanni Mariotti – Un Visionario dell’ Eternità

TRATTO DA:
http://www.mirorenzaglia.org/2009/04/blanqui-la-borghesia-alla-sbarra/

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