mercoledì 9 settembre 2015

Domenico Pellegrini Giampietro - Alberto Beneduce

Domenico Pellegrini Giampietro
Ministro delle Finanze della R.S.I. dal 23 settembre 1943  al 25 aprile 1945
 (Brienza, 30 agosto 1899 – Montevideo, 18 giugno 1970)


E'stato un politico, accademico, economista e scrittore italiano che negli ultimi anni della sua vita si dedicò anche al giornalismo.
Giovanissimo si trasferisce a Caserta dove fonda la legione nazionalista "Sempre pronti". Prende parte alla prima guerra mondiale insieme ad altri ragazzi del '99 come tenente di fanteria e viene decorato con la medaglia d'argento al valor militare. Nel 1922 si iscrisse al Partito Nazionale Fascista e partecipò alla marcia su Roma, che partì da Napoli, legandosi ad alcuni gruppi massonici.
Figura di spicco del fascismo campano (insieme ad Alfredo Rocco, Bruno Spampanato e l'economista Alberto Beneduce), nel 1926 si laureò in giurisprudenza ed esercitò per otto anni la professione di avvocato. Nel 1934 divenne professore universitario di Diritto pubblico comparato e di storia e dottrina del Fascismo a Napoli, e nel corso degli anni trenta ricevette numerosi incarichi di rilievo: fu ad esempio segretario dell'Unione interprovinciale credito e assicurazioni dal 1937 al 1943 e membro della Corporazione previdenza e credito dal 1934 al 1943.
Volontario nella guerra civile spagnola come capitano di fanteria, nel conflitto viene ferito e decorato con due medaglie d'argento al valor militare. Rientrato in Italia è nominato membro del direttorio federale di Napoli e del direttorio nazionale nel 1943, segretario federale di Napoli, consigliere nazionale nella Camera dei Fasci e delle Corporazioni e sottosegretario al ministero delle Finanze nel 1943, fino al 25 luglio.
Successivamente aderisce alla Repubblica Sociale Italiana, di cui Ministro per le Finanze: in questa veste egli costituì nel 1944 la "Brigata Nera", di cui fu anche comandante. Al termine della Seconda guerra mondiale fu arrestato ed assolto dall'accusa di collaborazionismo col regime nazista. Nel 1949 si trasferisce prima in Brasile, poi in Argentina e in Uruguay dove fa svolge la professione di banchiere e di direttore della rivista Sintesi.
Tra i suoi scritti, oltre agli Aspetti spirituali del fascismo del 1941 (che si basano su quello che venne definito "misticismo fascista"), ha una notevole importanza L'oro di Salò nel quale Pellegrini Giampietro non solo spiegò il modo con cui diresse l'economia della RSI (ad esempio nei primi mesi del 1945 fece stampare solo 10,881 milioni di carta moneta rispetto ai 137,840 autorizzati) ma fece anche delle ipotesi su chi si poté appropriare delle ingenti risorse economiche possedute da Benito Mussolini.

Onorificenze
Medaglia d'argento al valor militare (3 volte)
Croce al merito di guerra
Medaglia commemorativa della guerra italo-austriaca 1915 – 18 (4 anni di campagna)
Medaglia commemorativa dell'Unità d'Italia
Medaglia commemorativa italiana della vittoria
Medaglia commemorativa della Marcia Su Roma 


DOMENICO PELLEGRINI GIAMPIETRO
Il più grande e rivoluzionario tra i ministri delle finanze d’ogni tempo

Quasi sconosciuto in Italia, più noto in America Latina ( biografia volutamente malconcia sgrammaticata e sminuente nella demagogica e vile wikipedia apparentemente concessa nel circuito sorvegliato, censurato e registrato di internet ) è tenuto in totale buio e silenzio dal “sistema”. imperante in Italia dal 1945, schiavo servile della “norma” dispotica-apodittica ed usuraia sovrana – in abito e spirito “democratico” – nel mondo, specie dalla fine della seconda guerra mondiale. Motivo : Pellegrini-Giampietro osò ciò che nessuno, mai nella storia, concretò.
Fascista dalla giovinezza e, per razionale meditata coerenza, anche dopo l’illegittimo e proditorio arresto di Mussolini attuato, su disegno concertato con i nemici di guerra, dal sabaudo “Pippetto-Curtatone” che Ezra Pound definì “mezzo feto” (Cantos, LXXII, v. 106), il docente di diritto pubblico comparato e diritto Costituzionale Italiano Comparato nella università di Napoli, professore Domenico Pellegrini-Giampietro, dopo il 10 settembre 1943, sentì il dovere di concretare la definizione da lui formulata in “La sovranità degli Stati moderni” (1934):lo Stato fascista – riallacciandosi al Risorgimento – ne ha compiuto l’ opera, realizzando l’unità morale, politica ed economica della Nazione. E la sovranità è attribuita allo Stato stesso; il quale non la fa derivare né dal diritto divino, né da ideologie democratiche poiché la base di quella sovranità è  in principi etici e giuridici finora sconosciuti  . Sottosegretario alle Finanze dal 13 febbraio 1943 fino a tutto lo scriteriato-fatale 25 luglio, fu Ministro delle Finanze nella nuova organizzazione statale sovrana creatasi ( con o senza Mussolini, restituito alla libertà il 12 settembre, comunque per comunione ideale di molti italiani animati al riscatto per l’onore d’Italia nei territori non invasi dal nemico, la confederazione degli “Alleati” . La prima vera Repubblica d’Italia, proclamata poi Repubblica Sociale Italiana, ebbe governo delle finanze nelle mani, e nella mente illuminata e capace, del piccolo energico dinamico lucano di formazione napoletana, che salvò l’Italia tutta con arte sovra-umana e responsabile, degna di memoria eterna.
Il 25 agosto 1945 ,Il Popolo, organo della democrazia cristiana, citò l’attestazione del senatore Victor Wickersham, presidente la commissione parlamentare degli S.U.A. incaricata – conseguenza dei programmi disegnati a Bretton Woods – di visitare l’Europa :  la situazione economica dell’ Italia settentrionale ( ove fu sovrana e legittima la R.S.I. capeggiata da Mussolini, n.d.r. ) è molto migliore non solo rispetto alle regioni dell?Italia meridionale e centrale ( invase ed occupate dagli Alleati e sottoposte al potere dell’Allied Military Government Occupied Territories – A.M.G.O.T. – che impose, senza mai terminarlo, il suo potere formale il 31 dicembre 1947, n.d.r. ) ma anche nei confronti delle condizioni di altri paesi europei in precedenza visitati dalla Commissione di controllo e – in particolare – di Germania, Olanda, Norvegia, Belgio e di certe zone della Francia.
Termini incontestabili, discendenti dal fenomeno attuato dal Ministro Pellegrini-Giampietro, il quale, insediato in situazione finanziaria drammatica [ incombeva sulla penisola guerra sanguinosa con distruzioni ], ereditò dalla criminalità del clan badogliano ( imposto al potere per decreto del re, mai ratificato legittimamente ) debito monetario di 5 miliardi mensili, contratto dal regno d’Italia il 3 agosto 1943 con il Deutsche Reich hitleriano, per l’apporto attivo di tre divisioni militari germaniche sul suolo italiano. Per arginare l’invasione nemica degli Alleati, dopo il 10 settembre 1943 necessariamente operarono nella penisola molte divisioni germaniche – cobelligeranti con l’Italia dal 10 giugno 1940 -, così che crebbe l’obbligo-dovere del legittimo governo italiano verso la Germania che, unito con stipendi-provvidenze-previdenze corrisposte al milione di italiani impiegati, volontari, dal 1939 in quello Stato, insieme con altro denaro per il mantenimento degli ?internati militari non cooperanti, catturati dopo l?8 settembre 1943?, fissò, per i tre mesi del 1943, corresponsione mensile alla statale Deutsche Reich Bank di 7 miliardi di lire, aumentate a 10 miliardi mensili per il 1944 ed ancor più per il 1945. Compromessa dai monarchici badogliani, l’obbligazione ( di 120 miliardi di lire in contanti solo per il 1944 ) fu onorata dalle Finanze della R.S.I., accanto a spese correnti per dipendenti di Stato e parastato ( 1.400.000 impiegati, se pur a stipendi contenuti : il Capo dello Stato Mussolini ebbe attribuite 12.500 lire mensili autoridotte a L. 5.000, identiche allo stipendio di capitano dell’esercito! ), a ferrovie, poste, scuole, sanità, giustizia, pensioni, mutue sociali, congrue pel clero, opere pubbliche, produzione, alimenti, che ogni giorno permisero, a tutti i cittadini, vita in contenuta serena – anche se dura, per la guerra – certezza. Spese statali per 359,6 miliardi di lire contro introiti fiscali di un decimo (la pressione statale mai oppresse i cittadini durante il regime fascista, nel quale mai esistette evasione tributaria, implicita e tipica nella corruttela liberal-democratica!).
Quale soluzione per il Ministro, esperto di economia, per porre in attivo il bilancio statale – come mai più accadde nei 63 anni successivi! – superando attivo di 20,9 miliardi?
La quasi totalità dell’umanità ignora – per volontà dei banchieri, avallata dai sistemi religiosi – la natura del denaro, rivelata dal poeta Ezra Pound, non indagata dal pensatore Carlo Marx, ma dominata nei meandri da Domenico Pellegrini Giampietro ! Gli Stati, sovrani in apparenza e forma, dal 1694 sono espropriati della sovranità monetaria, demandata alla privatissima banca centrale, a causa di accidia abdicataria – venduta a bassissimo prezzo – dei politici “camerieri dei banchieri”, secondo la cruda denunzia di Pound. Così che per ogni spesa lo Stato è costretto, da leggi artatamente legittimate, a chiedere alla propria banca centrale prestito di denaro che, su precaria delega statale, questa raccoglie e custodisce a caro costo, lucrando interessi ed arrogandosi titolarità in forza del possesso scaturito dalla gestione concessa.
Indagatore del problema, primo nella storia umana, il Ministro delle finanze dei repubblichini di Salò? ( come indicano ed impongono gli inumani servi degli usurai, proni, profondamente chini, ai preti del loro dio denaro ! ) prelevò dalle casse della società per azioni Banca d’Italia [ banca al tempo privata, ed oggi totalmente ancor più, essendone azionisti e proprietari anche non italiani, addirittura anti-italiani, a fianco dei soliti pescicani, finanziatori-condizionatori della politica partitica quotidiana] il denaro dello Stato, da essa custodito precariamente custodito, ma usu-capito anche in virtù di codici e leggi bancarie !
Chi mai agì in tal modo nei secoli? Ed il candido senatore S.U.A. Wichersham, a caldo, accreditò l’azione sovrana del Ministro Fascista! Preceduto dal nominale ministro del tesoro del fittizio operettistico regno del sud, Marcello Soleri, insediato d’imperio – ma senza legittimazione – dallo A.M.G.O.T. che, giugno 1945, dichiarò :  le attrezzature industriali e produttive del nord hanno subìto scarsi danni…..? ( i bestiali bombardamenti aerei “liberatori” eseguiti a tappeto dagli Alleati furono concentrati solo ed essenzialmente su edifici civili ed abitazioni, con distruzioni mirate – come accadde per gli edifici già del quotidiano Il Popolo d’Italia acquistato da banchieri-pescicani padri della successiva repubblica – precedettero di 50 anni le distruzioni concretate in Irak ! Chi scrive possiede validi inoppugnabili documenti in proposito ! ) e … il livello dei prezzi non è tanto in funzione della maggiore o minore abbondanza dei mezzi di pagamento – che al nord era cospicua – quanto della quantità di merci sul mercato, ben più notevole al nord per la continuità della produzione e per le notevoli scorte?.
Lo scritto obbliga a specificare che, poi, fu gabbata per l’oro di Dongo qualche manciata di monetine trovate – e regolarmente rubate da chi le reperì per liberarle – nelle tasche degli assassinati, tra il 27 (Mussolini) ed il 28 aprile 1947 (gli altri, tutti esposti al ludibrio beluino di piazzale Loreto, per disegno del comando A.M.G.O.T., che organizzò, con largo anticipo, le riprese cinematografiche, soprattutto a colori, della “radiosa giornata” ), nel nord del lago di Como. Ma il “vero tesoro” – sottratto agli italiani – consistette, oltre l’asservimento dello Stato ai “signori apolidi del denaro”, nel gigantesco parco d’oltre 50.000 automezzi statali ( valore immenso, all’epoca ! solo per i copertoni delle ruote! ), armi pesanti-leggere e personali del ben equipaggiato esercito, depositi monetari in contanti e riserve di molte banche, beni pubblici fatti democraticamente sparire, insieme con oltre 10.000 importanti immobili demaniali attribuiti ed usu-capiti a persone-partiti ciellenisti-congregazioni religiose falsamente caritatevoli-diavolerie varie, col pretesto di esser stati fascisti. Tutto per imperiosa regìa Alleata, artefice, al sud ( nel regno fantoccio, poi depurato da “sovrani inutili”), del programmato disastro inflattivo di miliardi di AM-lire, scaturigine dello insanabile ?debito pubblico italiano?, sempre gestito da banche Alleate.
Pellegrini-Giampietro,. costretto dagli impegni badogliani cedenti la riserva aurea ( pur se al 18% di spettanza – per pegno – alla svizzera USB ) alla banca statale germanica, arginò i plenipotenziari di questa, mai permettendo che il tesoro aureo italiano uscisse dalla R.S.I. . Sconfitta dagli Alleati la autonoma Repubblica Italiana, la riserva fu trasferita in custodia in Svizzera dai vincitori dopo l’8 maggio 1945. La restituzione parziale avvenne, auspice il banchiere d’Italia liberal-massone Luigi Einaudi durante la sua presidenza della repubblica, solo dopo pagamento agli S.U.A. di US$ 700.000.000, dilazionati dal servil-prono e pio De Gasperi nelle pesanti costrizioni del pelosissimo “piano Marshall”.
Il regno d’Italia a sovranità AMGOT imbastì processi al Ministro, che, comunque, seppe beffarsi di quella autorità, attuando clamorosa fuga dalla prigione. Condannato comunque, malgrado l’acclarata correttezza di governo, sopravvisse modestamente tentando di riprendere quota, per sostenere moglie e tre giovani figli.
Angariato nel dopoguerra fino al 1949 ( anche da un magistrato aguzzino, inventore di pretesti falsi vertenti proprio sull’oro di Dongo, per detenerlo a San Vittore 66 ingiusti giorni), Domenico Pellegrini Giampietro – moglie, tre figli giovani e sola povertà in tasca – lasciò l’ingrata Patria trovando ospitalità in Brasile presso italiani. Intraprese, con successo, illuminata stimata attività bancaria, ed anche editoriale, in America Latina, ove, complice il cuore affaticato dalle sempre superate traversie, terminò l’infaticabile – e preziosa per la Patria – esistenza il 18 giugno 1970 nella tranquillità della lontana Montevideo, ove riposa.
E’ doveroso registrare che l’Italia raramente ebbe figli della tenace avveduta grandezza del Nostro. Ezra Pound, attento Maestro della Poesia più alta d’ogni tempo irrorata da scienza della storia e dell’economia, eternò ber tre volte, nei CANTOS, sezione dei Pisani, Domenico Pellegrini-Giampietro, per l’azione che l’estensore di questa nota da anni addita a persone di buona volontà, disposte a sapere e capire, a disdoro delle masse narcotizzate di belanti, ormai aduse e costrette a negare Uomini e Valori.
Studioso, dedito alla politica generosa e disinteressata, capace di alto governo, Italiano come pochi, corse volontario al fronte nella Grande guerra, poi contro il bolscevismo, armato da usurai capitalisti, nella scia della Falange Nazional Sindacalista di Josè Antonio Primo de Rivera in Spagna (1936-39), e nella seconda Grande guerra – Sangue contro oro -, sul fronte greco-albanese, decorato con tre medaglie d’argento e compensato con avanzamenti di grado sul campo : solo per l’onore d’Italia.
Se operò durante e per il Fascismo non fu caso ! Altre contingenze non avrebbero mai generato il più grande rivoluzionario della storia dell’economia : l’unico che diede al suo Stato – Italiano e Repubblicano, e, per ciò Sociale – consapevolezza di sovranità ! Il comandamento sognato ed additato dal grande Ezra Pound, ma taciuto da chi promette improbabili paradisi in nome di fedi religiose, modellate sulla ingenuità dei primitivi, stemperate in superstizioni apodittiche ed intolleranti, ragioni di tante sciagure.


Alberto Beneduce
Gricignano di Aversa, 26 ottobre 1877 – Roma, 26 luglio 1944

Nato da una famiglia poverissima, il futuro costruttore dell'economia di Stato fu scoperto da Francesco Saverio Nitti, che al giovane demografo diede il compito di realizzare l'Istituto nazionale delle assicurazioni. Pur essendo antifascista, trovò con Mussolini una larga intesa e ne ebbe incarichi di grande fiducia. Fece una veloce carriera che lo portò al vertice dell'Istituto per la ricostruzione industriale, dell'Imi e di una miriade di società e aziende che erano andate in crisi e che furono rimesse in sesto dall'intervento pubblico. Ma l'operazione più importante fu il salvataggio delle tre principali banche del Paese.
AIberto Beneduce nasce a Caserta nel 1877 da fami-t glia molto modesta; il Padre era stato, tra l'altro, portinaio. Al prezzo dei sacrifici più aspri si laurea in matematica e nel 1904 arriva a Roma, vincitore di concorso presso il ministero dell'agricoltura. Si impone immediata­mente come statistico-demografo, anche con pubblicazioni scientifi­che che sfidano le opinioni di stu­diosi autorevoli (ma a sua difesa scende addirittura Vilfredo Pareto e Maffeo Pantaleoni lo immette nella direzione del Giornale degli Economisti). Più tardi conseguirà la libera docenza e una cattedra uni­versitaria. Soprattutto si afferma al ministero come giovane tecnico di eccezionale valore. Nel 1911 man­tiene moglie e tre figli con uno sti­pendio di 150 lire, ma nel suo squallido alloggio va a visitarlo una celebrità accademica e politica, Francesco Saverio Nitti, quell'anno stesso fatto ministro da Giovanni Giolitti, il maggiore statista dell'Italia liberale.
Un manifesto delle acciaierie Terni, una delle aziende più importanti salvate dall'istituto per la ricostruzione industriale.
Nitti ha bisogno di un collaboratore di calibro insolito per realizzare l'operazione più ambiziosa e qualificante non solo del suo turno ministeriale, ma anche di quella riedizione del governo Giolitti: il monopolio statale delle assicurazioni sulla vita «i cui utili siano devoluti alle casse di previdenza per le pensioni operaie». Nitti aveva ottenuto la convinta adesione del «dittatore parlamentare» alla sua tesi di questo monopolio, o meglio di questo avanzamento del nascente welfare. Le memorie di Giolitti danno a questa riforma il rilievo più considerevole, argomentando che sul ramo vita le compagnie si arricchivano rischiando poco: «In una società gli azionisti avevano versato 882 lire per azione e ricevuto un di­videndo di 336 lire, pari al 40%, ripartendo inoltre tra gli ammini­stratori 240 mila lire. Un'altra, su azioni di lire 250 aveva distribuito 307 lire di dividendo». Quel che è più grave, denuncia Giolitti, alcune compagnie per insolvenza non adempivano agli obblighi dopo avere incassato i premi. Considerata, oltre a tutto, la facilità dei calco­li attuariali in materia di rischio morte, Giolitti osservava che lo Stato, imponendo il monopolio, non aveva bisogno di essere buon imprenditore. Gli bastava di garantire i capitali assicurati o le rendite promesse per raccogliere grandi volumi di risparmio e investirli secondo le finalità della previdenza sociale.
Nitti, avversario dei monopoli in sede scientifica ma esponente di punta del riformismo radical-liberale, non poteva non condividere la formula data alla riforma da Giolitti. E si prese il giovane demografo come segretario particolare, in realtà come capo progettista del costituendo Ina (Istituto nazionale assicurazioni), primo organismo manageriale italiano per l'inter­vento pubblico in economia. Il Parlamento istituì il monopolio, rilevò Ernesto Rossi ne I padroni del vapore, «perché l'attività privata in que­sto campo consentiva un eccessivo sfruttamento della clientela, mentre nessuna industria si prestava a essere gestita dallo Stato più facilmente. In questa forma d'assicurazione il ruolo del capitale è trascurabile, tutte le operazioni passive sono prevedibili sulla base delle statistiche, le insidie del caso sono ridotte al minimo, la fiducia nella garanzia dello Stato sulle polizze costituisce il primo elemento di successo». Giolitti, che volle fortemente l'assicurazione di stato e fu fiero dei suoi buoni risultati, spiegò: «Scelsi per il monopolio il ramo vita per la grande semplicità e sicurezza degli elementi che lo costituiscono, non essendo facile né presumibile che si possa fare apparire morto chi è vivo».
Costituito l'Ina Beneduce ne diven­ne prima, a 34 anni, consigliere d'amministrazione, poi capo operativo (il primo presidente fu Bonaldo Stringher, la cui fama è soprattutto legata alla lunga conduzione della Banca d'Italia). Fino a quel momento Beneduce viveva in tali ristrettezze che Nitti, nell'invitarlo a discutere di lavoro nella sua casa sul golfo di Pozzuoli, gli precisava che dalla stazione di Baia avrebbe dovuto prendere una carrozzella che gli sarebbe costata lire 1,25. Nel 1914 Beneduce affinò le proprie capacità di ideatore e organizzatore costituendo il Consorzio per sovvenzioni su valori industriali.
VIENE LA GRANDE GUERRA e Beneduce, he ne è stato fautore nelle file dell'interventismo democratico, si arruola volontario e ha persino una fuggevole esperienza al fronte; ma,  ormai importante grand commis, il suo posto non è in trincea tra i vari milioni di mobilitati. Realizza però un'altra operazione assicurativo-sociale a favore di questi ultimi, la polizza gratuita Ina per i combattenti, cui aveva pensato già nei giorni successivi a Sarajevo (ne scriveva al ministro Nitti l'8 agosto 1914). La polizza, approvata per decreto subito dopo Caporetto, avrebbe pagato 500 lire ai familiari dei caduti (1.000 lire per gli ufficiali); oppure 1.000 lire a tutti i sopravvissuti entro 30 anni (molto prima nel caso il piccolo capitale fosse destinato a iniziative di produzione). Tra Caporetto e il 1923 Beneduce, coll'aiuto di Nitti prima ministro del tesoro poi presidente del consiglio per sette mesi, lancia e rende operativa l'Opera nazionale combattenti che, presto dilaniata da contrasti politici e corporativi, poi sciupata dalle degenerazioni burocratiche e parassitarie, attuò tuttavia la prima riforma agraria dell'Italia moderna. La guerra l'avevano fatta soprattutto i proletari della terra (gli operai servivano alle industrie e invece degli orrori delle trincee avevano avuto non lievi miglioramenti dei salari e del peso politico) e a quei proletari la pace non poteva non dare un po' di terra. In totale l'Opera combattenti colonizzò e assegnò oltre 181 mila ettari: 130 mila espropriati, 26 mila acquistati, 25 mila donati. Gli interventi più cospicui furono concentrati nel Lazio, poi in Puglia e in Campania. L'Opera, prima declassata a dispensatrice di beneficenza, poi appesantita di impiegati e di favoriti, finì molti anni dopo, liquidata come ente inutile. Eppure nella sua concezione e nelle fasi iniziali fu, tra le creazioni di Beneduce, la più ricca di contenuti riformistici. Perché venisse in esistenza Beneduce promosse tempestive novità giuridiche in materia di  bonifiche idrauliche,  di espropri per pubblica utilità, di contratti per trasformazioni fondiarie, di piani finanziari d'inter­vento pubblico.
FU LA PARTE ITALIANA del vasto processo di riforma agraria che nel dopoguerra redistribuì, soprattutto tra gli smobilitati dell'Europa centrale e orientale, un decimo della superficie agraria. In Italia fu dalle file dell'interventismo democratico, specialmente dai suoi esponenti meridionali come Nitti, Beneduce, Paratore, che sorsero i progetti per spezzare il tradizionale blocco di potere agrario-industriale e per accelerare i processi riformistici avviati da Giovanni Giolitti. Se Nitti fu il teorizzatore già dal 1907, il realizzatore fu Beneduce, suo stretto sodale fino al distacco attorno al 1925. L'ingegneria finanziaria predisposta da Beneduce garantì all'Opera la considerevole dotazione iniziale (estate 1918) di 300 milioni, forniti per l'80% dall'Ina, che aveva fatto buoni profitti sui rischi della guerra marittima. Inoltre Nitti e Beneduce imposero un contributo forzoso al capitalismo industriale che aveva prosperato sulla guerra (ma il settore siderurgico, per il sopraggiungere della crisi di sovrapproduzione, contribuì in misura modesta). Tra l'altro Beneduce costrinse il ministero della Real casa a onorare la promessa del monarca di contribuire con 8 mila ettari della corona. L'Opera prestò altre assistenze agli smobilitati, tra cui l'istruzione elementare (l'analfabetismo era altissimo) e l'avviamento professionale. Se le finalità ultime dell'Opera erano sociali, Beneduce provò a im­porre connotazioni produttivistiche. Privilegiava il rendimento e il management sull'assistenzialismo «contadinista» che voleva assegnare piccole quote. Per lui l'Onc doveva   essere   «una grande impresa assuntrice di bonifiche e miglioramenti agrari, nonché promotrice e coordinatrice tecnico-finanziaria». Preferenza alle grandi azien­de a conduzione cooperativa, cioè alla modernizzazione piuttosto che al contadinismo. Com'è noto la colonizzazione preferita dal regime promosse invece le microaziende. Beneduce uscì dal consiglio d'amministrazione dell'Onc dopo avere tentato di mediare lo scontro tra gruppi politici e di categoria. Restò incancellabile il suo retaggio: rapidità e perentorietà sia degli espropri, sia delle misure d'attuazione. Nel 1919 fu eletto deputato socialriformista a Caserta. In rapporto a questa elezione lasciò la guida dell'Ina e la cattedra uni­versitaria ottenuta alcuni anni prima. Due anni dopo divenne ministro del lavoro e della previdenza sociale nel gabinetto di Ivanhoe Bonomi (Beneduce fu il primo titolare del nuovo dicastero). Nei sette mesi di carica avviò misure finalizzate alla democrazia industriale. Ma già al terzo mese aveva presentato le dimissioni; l'esperienza di parlamentare e di ministro gli fruttò soprattutto frustrazioni. Col 1925-26 Beneduce ha fatto con decisione la scelta del management finanziario-industriale e della regia dei più importanti processi di riorganizzazione dell'economia. Divenuto coll'appoggio di Stringher e di Volpi di Misurata presidente della Bastogi, allora una specie di Mediobanca, cioè una tolda di comando della finanza italiana, entra come tale nel consiglio d'amministrazione dell'Imi, da lui progettato e messo in essere. Presiede anche, più o meno simultaneamente, l'Istituto di credito alle imprese di pubblica utilità e il Consorzio di credito per le opere pubbliche. Rappresenta l'Italia nella Banca dei regolamenti internazionali a Basilea.
LA RIVELAZIONE PIENA DELLA SUA EGEMONIA viene due anni prima della storica istituzione dell'lri. Nell'ottobre 1931 Beneduce è il maggiore protagonista, anzi il dominatore, del salvataggio delle tre grandi banche (Commerciale, Credito italiano. Banco di Roma), seguito dal loro passaggio allo Stato. Con la sua eccezionale competenza, comprovata sul campo con l'ideazione e conduzione di una decina di organismi pubblici presto chiamati «enti Beneduce», nonché col prestigio, magnetismo e durezza della sua personalità, egli impone le soluzioni; le quali tra l'altro abbattono Giuseppe Toeplitz, fino a quel momento il primo banchiere del Paese. I tre istituti bancari sono arrivati sull'orlo dell'insolvenza perché, dopo avere fatto per molti lustri le banche holding, cioè le capo­gruppo di grandi industrie che la guerra aveva dilatato al di là delle esigenze del mercato normale, vengono tramortiti prima dalla riconversione postbellica, poi dai contraccolpi della depressione americana e internazionale. Rimaste con le casse vuote per l'impossibilità di smobilizzare i loro investimenti, le tre banche implorano Mussolini perché scongiuri un dissesto del sistema creditizio che avrebbe drammatiche conseguenze generali. E Mussolini per individuare le soluzioni sia istituzionali, sia operative si affida a Beneduce più che a Stringher e al ministro delle Finanze Guido Jung. Beneduce decide che le tre banche siano assunte in proprietà dall'Imi e da quel momento cessino definitivamente di operare nel credito industriale. Il loro maggiore esponente, Toeplitz, viene estromesso dalla guida della Commerciale, degradato a vicepresidente. Nella riunione finale, il 31 ottobre 1931, lo sconfitto condottiero della Commerciale appare letteralmente at­territo dall'asprezza e violenza del­l'eminenza grigia economica del duce. Ecco una tipica enunciazione di Beneduce su «l'erroneo giudizio dei dirigenti delle grandi banche, facilissimi all'espansione creditizia, incapaci di giudicare e tanto meno dirigere la vita delle aziende produttive». E Donato Menichella, suo allievo: «Gli uomini preposti alle banche erano principalmente degli uomini d'affari che raccoglievano anche depositi». Raffaele Mattioli, successore di Toeplitz a capo della Commerciale, disse che fino alla crisi del 1931 e al repulisti di Beneduce le banche e le imprese erano «sorelle siamesi», cioè errori della natura. E l'economista Marcello De Cecco: «Insistiamo a chiamare banche quelle che erano grandi finanziarie». Insomma Alberto Benedu­ce portò fino in fondo il «riformismo giacobino», come Nitti, suo mentore teorico, non aveva saputo o potuto fare. Si consolidò il mito del Beneduce demiurgo. La creazione dell'lri, nel 1933, fu il coronamento della sua opera. Lo Stato si fece imprenditore di grandi imprese, cominciando dalla siderurgia e dalla meccanica pesante che la guerra aveva sovradimensionato e che il totalitarismo non poteva vedere devastate. Però, questa l'originalità del piano Beneduce, risalente a una delle maggiori intuizioni nittiane, lo Stato non si mise a intraprendere attraverso le proprie strutture, norme e prassi amministrative. Utilizzò, invece, organismi autonomi, esterni alla burocrazia, governati dalle regole delle società per azioni, orientati al mercato e, in alcuni casi, risanati per essere restituiti ai privati. All'e­poca fu il più importante esperimento di capitalismo di stato fuori dell'Unione Sovietica. In nessuna democrazia parlamentare sarebbe stato possibile quanto Beneduce attuò perché ne aveva mandato da Mussolini. Le formule di «economia regolata» furono scelte e rese operative con più speditezza e meno lacerazioni che nell'Urss, dove le collettivizzazioni costarono tragedie indicibili. Romano Prodi, uno dei successori di Beneduce a capo dell'lri (però di un Iri ben diverso e meno vitale di quello nato nel 1933) ha avuto opportunamente a sottolineare «una delle dimensioni dell'uomo Beneduce, legata essenzialmente al social riformismo di Nitti» e «il paradosso che Beneduce attuò un programma di tipo nittiano (l'economia associata o mista) in un quadro fascista». Peraltro in quell'occasione Prodi non avrebbe dovuto tacere che il riformismo di Nitti era stato preparato da quello di Giolitti.
IL CREDO DI BENEDUCE era appunto il socialriformismo: «Solo l'egemonia del lavoro può salvare la nazione», scriveva nel 1920. «Ma la massa operaia non ha né preparazione spirituale, né qualificazione tecnica (...) Occorrerà un crescente intervento dello Stato nell'economia, organizzando sedi specializzate esterne alla pubblica amministrazione, operanti in economia di mercato». Beneduce, come Nitti, detestava la pletora di impiegati pubblici, mal pagati ma stabili. In pratica sognava di creare uno Stato «parallelo» fuori dello Stato. Capeggiando o influenzando, forse persino plagiando, un gruppo di personaggi, in primis Stringher, Menichella, Vincenzo Azzolini, Volpi di Misurata, per non parlare di Mussolini, Beneduce creò un'architettura di istituzioni, soprattutto Ina, Crediop, Icipu, Imi, Iri, attraverso le quali lo Stato agiva come soggetto economico, raccogliendo e investendo ingentissimi volumi di risparmio. Degli organismi creati da Beneduce il mercato si fidava. Dopo l'Iri, fu la volta nel 1936 della legge di riforma bancaria, che dette un assetto stabile al settore, anch'essa pensata prevalentemente negli uffici dell'lri.
Beneduce morì nell'aprile 1944, non vecchio; già nel 1939 era stato menomato dalla malattia. Dopo una prodigiosa carriera alla testa di organismi dai bilanci gi­ganteschi non era più povero. Nitti, che non gli aveva perdonato l'usci­ta verso il 1925 dal fronte antifascista e aventiniano, scriverà che il suo grande seguace era stato preso «dalla febbre di diventare sempre più ricco. Però non fu mai disonesto». Nonostante la rottura con lo statista lucano, Beneduce fu accusato da alcuni fascisti d'essere rimasto nittiano. È un fatto: divenne uomo di fiducia di Mussolini, ma non fascista. Non prese mai la tessera. Vari rapporti di polizia al duce riferivano il malumore dei gerarchi. Starace compreso, per il fatto che la mente della finanza mussoliniana, e anche il regista di grandi realizzazioni, non fosse fascista. Che in più fosse anche massone. Queste denunce mettono in risalto il realismo del Mussolini di quegli anni: passò sopra i peccati originali di Beneduce (nittiano, quasi socialista, aventiniano, massone) pur di assicurare allo Stato fascista un così acuto ed efficiente Colbert. Gli assegnò la posizione più eminente nella finanza italiana. Più volte lo fece risultare più potente dei ministri e dei governatori dell'istituto d'emissione. Nei fatti, allora. Mussolini apprezzò che Beneduce fosse portatore e artefice dello statalismo liberal-laburista di Nitti, un meridionale d'ingegno come Beneduce, Meni­chella (nato a Biccari provincia di Foggia), Azzolini (nato a Napoli), persino come il guerrafondaio Salandra (nato a Troia nel foggiano). Fattosi fondatore del totalitarismo, l'antico socialista di Predappio aveva bisogno dell'ingegneria statalista, sia pure da snaturare, di Alberto Beneduce.
di   Antonio   Massimo   Calderazzi
 [ tratto da Millenovecento - Mensile di Storia Contemporanea  - Anno 4 n.31 ]


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