mercoledì 29 maggio 2013

Le origini di Napoli e il mito di Partenope

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Napoli è una città antichissima, benché oggi aperta a tutti i venti della modernità. La fondazione sull’altura del Monte Echia di Palaepolis (la città antica) risale con molta probabilità al IX secolo a. C. La stessa Neapolis (la città nuova) mostra ancora ben leggibile il tracciato insediativo del V secolo A.C.. La straordinarietà della permanenza di questo tracciato nel corso dei millenni ha rappresentato un motivo di ammirazione fin dall’età rinascimentale, quando vari umanisti, tra i quali il dottissimo Fra’ Giocondo da Verona, dedicarono studi minuziosi al rilievo della città per verificare l’attendibilità dei principi insediativi dei greci, in seguito rielaborati da Vitruvio e dalla trattatistica classica.
L’impianto della nuova città fu delineato infatti con rigore geometrico esemplare per l’armonica proporzione dei rapporti metrici, ben calibrati in relazione al luogo ed articolati su un nitido reticolo ortogonale di cardini e decumani. Sarebbe tuttavia un equivoco interpretare tale perfezione tecnica come aspirazione ad una razionalità assoluta. Anzi, fin dall’origine la città del logosfu avvolta nelle spirali labirintiche del mito.
Molta attenzione fu prestata ai misteri del paesaggio. Se è vero che le dimore furono adagiate con meticoloso ordine su un terreno in leggero declivio, resta altresì innegabile che tale insediamento (cinto da mura) era consapevolmente collocato nel bel mezzo di due (magici) fenomeni vulcanici: la grande montagna di fuoco del Vesuvio ad est e le “terre ardenti” dei Campi Flegrei ad ovest. A nord la città era protetta dalle alture montuose, simili a scudi di pietra contro i venti più freddi, ma aperta a sud sull’azzurro del mare per l’approdo delle navi, delle merci, degli aromi, dei linguaggi e delle genti provenienti dalle più variegate terre del Mediterraneo. Non sfuggì all’immaginativa osservazione dei fondatori ellenici la suggestiva metafora del sole che sorge dietro il gigantesco cono lavico del Vesuvio e tramonta nei Campi Flegrei, quasi immergendosi nel cerchio d’acqua dell’Averno, là dove la leggenda vuole che si dischiudesse il varco iniziatico per la discesa negli Inferi.
“Gli antichi – ha scritto Italo Calvino – rappresentavano lo spirito della città, con quel tanto di vaghezza e quel tanto di precisione che l’operazione comporta, evocando i nomi degli dei che avevano presieduto alla sua fondazione: nomi che equivalevano a personificazioni di elementi ambientali, un corso d’acqua, una struttura del suolo, un tipo di vegetazione, che dovevano garantire della sua persistenza come immagine attraverso tutte le trasformazioni successive, come forma estetica ma anche come emblema di società ideale. Una città può passare attraverso catastrofi e medioevi, vedere stirpi diverse succedersi nelle sue case, vedere cambiare le sue case pietra per pietra, ma deve, al momento giusto, sotto forme diverse, ritrovare i suoi dei”.
Napoli ha metaforicamente trasfigurato il senso della sua fondazione nel mito di Partenope, desunto da un più antico culto della sirena radicato nella preesistente città di Palaepolis. Come in altre leggende, diversi significati allegorici si sono fusi e confusi con enigmi esoterici, in un groviglio semantico difficile da districare in chiave scientifica.
Tuttavia è tutt’altro che inutile tentare l’ermeneutica dei miti, non foss’altro perché sotto l’apparente ingenuità delle favole si celano valori antropologici profondi dell’onirico collettivo.
Nella versione più arcaica del mito, Partenope era un ibrido di gentilezza umana e di belluinità animale: il volto di una fanciulla (vergine) connesso al corpo di un uccello (e non già di un pesce, come nella successiva e più nota leggenda). La vergine alata sarebbe nata dal dio-fiume Acheloo e dalla madre-terra Persefone. Nella crisalide di questa fantasia è racchiusa una foresta di simboli che rinvia agli elementi primari della Natura: il cielo, la terra, l’acqua, il sottosuolo.
Ma c’è dell’altro. Vivendo tra le rocce e tra i boschi lungo le coste del mare, Partenope aveva tentato invano di sedurre Ulisse, propinandogli con la dolcezza del suo canto l’inganno della rappresentazione idilliaca del passato. Respinta dall’astuto “eroe della conoscenza”, deciso a proseguire a tutti i costi la rotta esplorativa nell’arcipelago delle civiltà mediterranee, spinto dall’incontenibile volontà di nuove esperienze, la sirena si era suicidata, lanciandosi dall’alto di una rupe (katapontismòs), ed il suo corpo, trainato dalle onde del mare, era rimasto imbrigliato tra gli scogli del golfo napoletano.
Nel mito arcaico il corpo di Partenope fu sepolto a Megaride, l’isolotto di approdo dell’antica Palaepolis, ma nei racconti posteriori il sepolcro della vergine venne traslato dentro le mura di Neapolis, in assonanza con la diffusa credenza dei riti di fondazione. Resta incerta l’esatta ubicazione del sepolcro. Alcune fonti indicano un antro sottostante all’attuale Chiesa di San Giovanni Maggiore, ma altre lo collocano nel cuore stesso della nuova città, vale a dire in un naos racchiuso tra le mura isodome (V secolo a.C.) che funsero poi da basamento del Tempio dei Dioscuri (I secolo d.C.). Questo Tempio dominava lo scenario dell’agorà-foro con il suo spettacolare pronao esastilo, che sembrava destinato a sfidare il tempo per la sua forza simbolica, tant’è che era stato preservato anche in età cristiana come allegorico ingresso alla chiesa teatina e ritratto come paradigmatico reperto dell’antichità classica da Andrea Palladio nei Quattro Libri dell’Architettura. Solo il 5 giugno del 1688 un violento terremoto distrusse l’antico pronao del quale permangono tuttavia ancora due colonne corinzie incastonate nella bella facciata settecentesca dell’attuale Chiesa di San Paolo Maggiore. Il luogo dove sorse l’antica agorà (oggi denominato Piazza San Gaetano), resta a dir poco mirabile, non foss’altro perché nei suoi monumenti sono sedimentati duemila e cinquecento anni di storia.
A ridosso del chiostro grande del convento teatino sono riconoscibili i resti del Teatro del 62 d. C. e lo stesso andamento sinuoso di via San Paolo (in direzione di via Anticaglia) lascia percepire l’impianto del coevo Odeon. Si tratta di due significative testimonianze d’età romana per le quali è previsto un piano di recupero atto a liberarle dalle superfetazioni edilizie che le sovrastano. Al di sotto della cattedrale gotica di San Lorenzo si possono però già visitare gli scavi ipogei delle strade con botteghe che giungevano nel foro, in una densa stratificazione archeologica verticale unica in Europa.
Ritornando ai miti sulla genesi della città, la favola più suggestiva resta quella che descrive la metamorfosi di Partenope, dissoltasi nella morfologia stessa del paesaggio, distesa lungo tutto l’arco del golfo, con il “capo” poggiato a oriente nell’altura di Capodimonte, il “corpo” delimitato dalle mura urbane ed il “piede” (o coda) ad occidente, immerso nel mare ed affiorante nel promontorio collinare di Posillipo. Così il rito della fondazione urbana si estese al culto del paesaggio, in armonia con gli ideali ellenici di venerazione della natura.
Per ironia della storia, anche la reale crescita urbana sembra aver seguito il tracciato di questa immaginaria metamorfosi. Il nocciolo storico più antico – racchiuso all’origine nel nitore euclideo del suo tracciato, ancora ben visibile dall’alto della Certosa di San Martino – è cresciuto distendendo come una pianta la rete delle sue lunghe radici sulle adiacenti colline, in uno sviluppo apparentemente senza ordine. Vista dal mare, però, la città appare a suo modo armonica, adagiata sulla cavea naturale delle sue alture collinari simile ad un teatro ellenico aperto sullo spettacolo del golfo. È la natura insomma ad aver offerto la base orografica del fascino urbano di Napoli. Non a caso l’immagine da cartolina per antonomasia ritrae la città racchiusa nell’intervallo tra un pino e lo sfondo del Vesuvio, mentre in altre città europee viene eletto quasi sempre un monumento a fungere da simbolo. Si pensi alla Tour Eiffel per Parigi, al Big Ben per Londra o a San Pietro per Roma.
Certo, nel secolo che si è appena concluso l’espansione edilizia e lo sviluppo industriale hanno recato ferite difficilmente rimarginabili alla bellezza del paesaggio naturale. Valga da esempio l’installazione a Bagnoli nel 1905 della fabbrica siderurgica, poi ingigantitasi con la ridenominazione di Italsider. È tuttavia in atto un piano per correggere il paradosso urbanistico novecentesco di aver eretto uno stabilimento industriale inquinante in un luogo di innegabile seduzione ambientale, su una spiaggia (Coroglio) prospiciente l’isolotto di Nisida che rappresenta la metaforica porta d’ingresso ai Campi Flegrei.
Si potrebbero menzionare anche altri esempi di ripristino del rapporto della città con il mare, tra i quali l’abbattimento della barriera portuale a Piazza Municipio o la riqualificazione ad oriente dell’altro complesso industriale dismesso (Corradini).
Ma quel che più conta è il senso di questa nuova fase urbana. Dopo anni di oblio, la città sembra aver ritrovato i suoi dèi.

Articolo tratto da Benedetto Gravagnuolo, Preside della Facoltà di Architettura dell’Università di Napoli, su Ulisse, la Rivista di bordo dell’Alitalia.



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