lunedì 26 luglio 2010

Un Pound di nome Ezra














di Maurizio Blondet
Vita e morte del crociato che combattè l’usura del «greenback»
29.10.08 - Ezra Pound è forse l’artista più imbarazzante, più «rimosso» e meno sereriamente giudicato della letteratura occidentale contemporanea: e ciò perché nel suo caso riesce impossibile l’operazione, vagamente filistea, che si è fatta con tutti gli autori sedotti dalla «tentazione fascista», Celine in testa: quella di separare la loro «arte» dalla loro ideologia sconfitta e maledetta.
Le idee economiche di Pound, allo stesso titolo del suo «fascismo» e della sua follia fanno corpo unico con la sua poesia.
Ma potrebbe essere il momento di guardare dentro quelle idee. Non stupirà sapere che queste idee erano delle più balzane e che, oltre tutto, egli non volle o non riusci mai ad organizzarle in uno scritto pienamente comprensibile: le sue opere ne sono piene, ma a sprazzi, a lampi.
Sappiamo che Pound fu sedotto dal concetto di «moneta prescrittibile», lanciato negli Anni Dieci da Silvius Gesell, un economista eretico tedesco, che fu ministro delle Finanze dell’effimero governo socialrivoluzionario che s’instauro in Baviera nel 1919; Gesell pensò a banconote che per mantenere il loro valore liberatorio, dovessero essere «rivalutate» ogni mese con l’apposizione di un bollo pari a un centesimo del valore facciale della banconota: sicché in cento mesi la tassa avrebbe uguagliato il valore della moneta, e la moneta stessa sarebbe stata annullata.
Tra il 1° agosto 1932 e il 10 settembre 1933 una moneta del genere circolò effettivamente nella zona di Woergl, in Austria, e fu soppressa per intervento statale. Per Gesell, la moneta prescrittibile aveva il vantaggio di non poter essere tesaurizzata e quello aggiuntivo di battere l’inflazione, perché ogni giorno una certa quantità di banconote usciva automaticamente dalla circolazione.
Pound, folgorato da quell’«invenzione», vide in essa lo strumento che avrebbe restituito ai popoli e agli Stati una «vita sana», non corrotta da falsi valori.
In «Lavoro ed Usura» cosi immaginò l’uso di quella moneta in Utopia, «Un paese placido giacente fuori dalla geografia presente»: «(gli abitanti) attribuiscono la loro prosperità a un semplice modo di raccoglier le tasse, o meglio la loro unica tassa, che cade sulla moneta stessa. Perché su ogni biglietto del valore di cento, sono costretti ad affiggere una marca del valore di uno, il primo giorno di ogni mese. E il governo, pagando le sue spese con moneta nuova, non ha mai bisogno di imporre imposte, e nessuno può tesaureggiare questa moneta perché dopo cento mesi essa non avrebbe alcun valore. Cosi è risolto il problema della circolazione. E cosi la moneta non godendo poteri di durabilità maggiori di quelli posseduti da generi come le messi, le patate, i tessuti, il popolo è arrivato a giudicare i valori della vita in modo più sano. Non adora la moneta come un dio, e non lecca le scarpe dei panciuti della Borsa e dei sifilitici del mercato. E, naturalmente, non è minacciato d’inflazione, né costretto a fare guerre a piacer degli usurai...».
L’altro idolo economico di Pound era la teoria di Clifford H. Douglas, battezzata «social credit». Douglas era un ingegnere ferroviario scozzese; nemico del capitalismo liberale, secondo lui dominato da una cricca di banchieri-parassiti, giunse a concepire un macchinoso sistema che avrebbe dovuto impedire ai banchieri di sfruttare il lavoro della gente modificando a piacimento le masse monetarie in circolazione.
Più che questo sistema economico (che ebbe pure seguaci nella sinistra americana e inglese), Pound ritenne delle idee di Douglas il concetto secondo cui la ricchezza di un popolo e il credito di cui può godere derivino dalla «eredità culturale» del popolo stesso, dal complesso di nozioni scientifiche e tecniche che possiede, dal suo lavoro e dalla sua onestà.
«Il tesoro di un popolo è la sua onestà».
Come si vede, l’economia era per Pound anzitutto una questione morale. E’ stato già notato che Pound fu essenzialmente un moralista, e precisamente un moralista americano, erede di quella tradizione protestante, minoritaria ma sempre viva in America, che si oppone all’«etica del capitalismo» in nome dei valori del lavoro, dell’agricoltura, dell’idea (d’origine quacchera) di una vita armoniosa, operosa e senza violenza.
La stessa sensibilità di Ezra per le questioni monetarie e del credito non si capisce se non si dice che esse crearono problemi drammatici ai primi coloni d’Oltreatlantico. Per decenni nelle colonie americane lungo tutto il ‘700, per far fronte alla scarsità artificiale di moneta creata dall’Inghilterra, furono mezzi di pagamento le pelli di castoro, le collanine indiane di conchiglie dette «wampum», monete messicane e spagnole; in parte la storia degli Stati Uniti può essere letta come la lunga lotta di un popolo operoso e semplice contro la spregiudicatezza dei finanzieri londinesi.
In questo senso nel 1750 la Pennsylvania cominciò a battere una sua propria moneta, da prestare «a scopo di bonifica agli agricoltori, fino al valore di metà delle terre (...) chiedendo il ripagamento in dieci rate annue»: questo esperimento, che ancorava il valore della moneta insieme alla terra e al lavoro di chi la coltivava, risanò i bilanci della Pennsylvania, ma fu soppressa dal governo britannico.
Più tardi la lotta continuò con il conflitto fra il biglietto di Stato (il «greenback») e la banconota emessa da banchieri e speculatori, che negli Stati Uniti mostrarono una spudoratezza e una spregiudicatezza senza limiti: e naturalmente Ezra era per i biglietti di Stato, uno Stato concepito (cosa anche questa tipicamente americana) come il garante dell’onestà del popolo; governo «del» popolo e «per» il popolo.
«Lo Stato ha il credito», e non ha bisogno di chiederlo alle banche - ripete ossessivamente Pound - «La moneta non può essere ‘simbolo di lavoro’ senz’altra qualifica. Può essere ‘certificato di lavoro compiuto’ a condizione che questo lavoro sia fatto dentro un sistema. La validità del certificato dipenderà dall’onestà del sistema, e dalla competenza di chi certifica, e bisogna che il certificato indichi un lavoro utile, o almeno piacevole, alla comunità. Lo Stato ‘lavora’ (perché organizza il ‘sistema’) e dunque può battere moneta, può prestare, può avere credito come ha credito un onesto imprenditore, che lo garantisce con tutti i suoi beni».
Ezra amava ricordare che suo nonno, Thaddeus Coleman Pound, stampando una propria carta «moneta» «pagabile al portatore in merce o legna», raccolse fra i boscaioli di Chippewa un credito bastante a costruire un lungo tratto di ferrovia.
E’ dubbio che queste idee si siano mai organizzate, nella mente di Ezra, in un sistema coerente e organico: gliene mancava la competenza. E’ stato Fernando Ritter, un economista che Pound conobbe e ammirò, e il cui destino ricalca singolarmente quello poundiano (svizzero di nascita, Ritter si fece italiano per ammirazione di Mussolini), a dare una forma più esplicita alle convinzioni economiche di Ezra. Ritter le espose in un libro, «Lo pseudocapitale», pubblicato da Scheiwiller anni fa.
Lo «pseudo-capitale» è la moneta bancaria, quella che non ha altra realtà che le scritture contabili delle banche. Il sistema bancario «traffica in debiti»: appena concede un prestito, ottiene un credito pari alla somma prestata, più gli interessi; questo credito in «pseudo-capitale», può essere di nuovo trasformato in prestiti e cosi via.
«La banca lucra interessi dal denaro che crea dal nulla», ripete Pound. Il circolo vizioso si alimenta a prezzo di accelerare il ciclo, di stimolare la produzione di beni più o meno superflui, di cattiva qualità, destinati a rapidissima obsolescenza o distruzione; il sistema bancario alimenta, per il suo profitto, la società dei consumi, o crea scarsità artificiali, artificiali bisogni e sprechi, provocando guerre. L’importante è che gli interessi sui debiti continuino a essere pagati, perché i crediti bancari possano essere considerati esigibili.
Queste erano le idee, giuste o sbagliate, a cui credeva Pound. Sono sottese alle sue oscure invettive, ai suoi appassionati consigli.
Egli cita una frase di Rothschild che, secondo lui, smaschera lo sporco gioco: «Pochi comprenderanno questo sistema, coloro che lo comprendono saranno occupati nello sfruttarlo, e il pubblico non capirà mai che il sistema è contrario ai suoi interessi».
Cita Chesterton: «I grandi affari dipendono dai grandi banchieri, che governano l’Inghilterra come una filiale di New York, pur essendo essi stessi non abbastanza americani da poter entrare a far parte di un circolo statunitense».
E batte, nei suoi «Discorsi da Radio Roma», durante la guerra, su quella che a lui pare la prima libertà: «La libertà di non indebitarsi»: «Una nazione che non vuole indebitarsi - dice - fa rabbia agli usurai».
S’è ripetuto troppo poco che Pound commise il fatale errore di credere, senza alcun fondamento, che il fascismo fosse sul punto di incarnare le sue idee economiche, e Mussolini il «genio» capace di metterle in atto. In realtà, egli vide soprattutto nel fascismo e nella sua politica di autarchia, di grandi bonifiche, di stretto controllo monetario, quella «volontà di non indebitarsi» di cui andava predicando.
Nel fascismo vide il catalizzatore di virtù antiche dell’Italia: già il nome della banca di Siena, il Monte dei Paschi, lo estasiava, facendogli intendere una forma di credito concessa sui «pascoli», sui campi, su ricchezze reali rese fruttifere dal lavoro.
«La base valida del credito - scrive in ‘Lavoro ed Usura’ - fu conosciuta e affermata al principio del Seicento dai fondatori del Monte dei Paschi. Fu, ed è, l’abbondanza, ovvero la capacità produttiva della natura, presa insieme con la responsabilità di tutto un popolo». E chissà come sghignazzarono i dirigenti del Monte, se lessero il saggio.
Certo è che Pound sperò in Mussolini, vi sperò nel suo modo allucinato ed eccessivo. Più volte cercò di mettersi in contatto con lui: Niccolò Zapponi, ne «L’Italia di Ezra Pound», ha ricostruito questi ingenui tentativi. Pound chiese un colloquio al duce attraverso la segreteria di Palazzo Venezia il 23 aprile del ‘23, senza esito. Tornò alla carica nel dicembre ‘32, proponendo il copione di un film sulla nascita del fascismo; pochi giorni dopo, con astuzia, chiese di nuovo di parlare a Mussolini «per rispondere ad alcune critiche al libro di Ludwig, ‘Colloqui con Mussolini’, apparse sui giornali americani».
Per il duce quello era un punto dolente: il 16 febbraio ‘33, ricevette il «giornalista americano Pound». Di questo colloquio resta la testimonianza, estasiata, di Ezra, riportata nel «Canto 41». Il duce sfogliò i Cantos e li trovò «divertenti». («Ma questo/disse il Capo/, ‘è divertente’/cogliendo il punto prima che gli esteti lo cogliessero»).
Certamente Pound parlò a Mussolini dei suoi studi sugli ideogrammi cinesi, del concetto confuciano che bisogna «mettere ordine nelle parole», trovare giuste definizioni per mettere ordine nelle idee. Mussolini gli chiese: «Perché volete mettere ordine nelle vostre idee?», e anche questa parve a Pound una domanda geniale.
Non ci furono altri incontri, ma ormai Ezra era conquistato. Nel luglio del ‘35, Pound inviò al duce il suo saggio «Jefferson and/or Mussolini», nell’ottobre, un suo bislacco piano per la fondazione di una nuova Società delle Nazioni, piano che la segreteria del duce rubricò con questa nota: «Si tratta di un progetto strampalato concepito da una mente nebbiosa, sprovvista di qualunque senso della realtà. Tenuto conto dell’affetto che il Pound porta all’Italia e dell’entusiasmo che lo anima, basterà fargli presente quanto segue, ecc.».
Pound, che ignorava questo giudizio, continuò a tempestare la segreteria di lettere. Riuscì ad attrarre l’attenzione del duce con un’ennesima missiva, datata 10 maggio 1943, in cui alludeva nel suo solito modo oscuro alla moneta geselliana. Mussolini vide la lettera e chiese spiegazioni su Pound e su «questa sua moneta prescrittibile». La segreteria stilò poco dopo una nota per il dittatore in cui erano esposti oggettivamente le caratteristiche e i presunti vantaggi della moneta col bollo.
La cosa mori lì. Altri eventi, del resto, incalzavano. La guerra infuriava.
Dal 1941, Ezra Pound aveva chiesto con insistenza di essere incluso fra i collaboratori delle trasmissioni di «Radio Roma» per la propaganda verso gli Stati Uniti e l’Inghilterra; era stato ammesso, nonostante un parere contrario del SIM. Da allora, in media ogni tre giorni, «l’amico Ezra» continuò a parlare ad improbabili ascoltatori americani: trasmissioni allucinate, cariche di allusioni oscure e di bagliori, di invettive contro «gli usurai ebrei» e di ricordi letterari o di indecifrabili esperienze personali.
Soprattutto, continuava a battere e a ribattere sulle sue «idee economiche», sulla «libertà di non indebitarsi», sulla guerra «voluta dagli usurai».
E’ assai dubbio che gli eventuali ascoltatori d’Oltreatlantico potessero capire quei discorsi; è certo che chi potè ascoltarli dovette trarre conclusioni infauste sulla salute mentale del poeta. I soli che potevano comprendere le sue allusioni alla «congiura finanziaria» erano, forse, quegli stessi potenti della finanza che lui malediceva e insultava.
Nel luglio 1943, Ezra fu accusato ufficialmente di tradimento negli Stati Uniti. Gli eventi dell’8 settembre non frenarono l’entusiasmo del poeta: ancora nel ‘44 e persino nel ‘45 Ezra continuerà a scrivere alla segreteria di Mussolini rivolgendo al dittatore di Salò pressanti appelli per la riforma del sistema monetario.
Il resto è noto: crolla la Repubblica Sociale, arriva il giorno della liberazione. Le copie di una traduzione poundiana di un’opera di Confucio, «Chung Yung, l’asse che non vacilla», appena stampate a Venezia, vengono date alle fiamme perché credute materiale di propaganda per l’Asse.
Il 3 maggio 1945 due partigiani prelevano Ezra e lo consegnano agli Alleati. Settimane d’interrogatori. Il 24, la polizia militare americana lo interna in un campo di concentramento presso Pisa, chiudendolo in un’atroce gabbia. Vi resterà tre settimane, esposto al sole di giorno, accecato dai riflettori la notte.
In quella prigionia da belva furiosa concepirà i «Canti Pisani»: in cui torneranno, come incubi, l’immagine di «Ben e Claretta», appesi per i piedi in Piazzale Loreto, l’orrore della «sua» Europa vinta e schiacciata.
«Formica solitaria da un formicaio distrutto/dalle rovine d’Europa, ego scriptor».
In seguito, a Washington, il processo per tradimento, interrotto - forse misericordiosamente - dai giudici che dichiarano il poeta «infermo di mente e incapace di provvedere alla propria difesa». Ezra, che e rimasto muto fin dalla prima udienza, sarà rinchiuso nel manicomio criminale di Saint Elizabeth. Vi resterà dodici anni.
In quei dodici anni, Pound scriverà, comporrà infaticabilmente. A poco a poco, lo scandalo del «pazzo» che canta dalla sua prigione muoverà un vasto schieramento di intellettuali, italiani, americani, inglesi a chiedere la sua liberazione.
Il 18 aprile 1958, liberato, Ezra torna in Italia. Non è più «l’Apollo da operetta di Offenbach, barbetta fulva, occhio lampeggiante», del ritratto che ne fece Mario Praz: non è più il parlatore «in un italiano insaporato di idiomi liguri, generoso, focoso, stroncatore, imbroccatore di cantonate, amante sfortunatissimo della precisione. Ora è un vecchio fragile, dalla candida barba veneranda; un profeta ammutolito».
E muto assiste alla crescita della fama, controversa e sofferta, del suo poema oscuro, dei suoi «Cantos» e dei «Canti Pisani»: architetture dantesche spezzate, collages di inglese, italiano, provenzale e ideogrammi cinesi, comprensibili solo a bagliori, in cui è giocoforza ammettere che le «idee economiche» e la sua «fede» fascista costituiscono la materia, il corpo, il filo conduttore.
Si è cercato, ovviamente, di accreditare la tesi che Pound, nei suoi ultimi anni, abbia abiurato quelle sue idee, le abbia riconosciute un errore, anzi una follia. È anche questo un modo di rimuovere lo «scandalo Pound».
A impedire però che questa rimozione abbia successo bastano, credo, due versi del Canto CXVI, che il fragile vecchio Ezra ha scritto, quasi come sommessa protesta e lancinante compendio della sua vita: «Ma la bellezza non è la pazzia/benché i miei errori e relitti mentano su di me (But the beauty is not the madness/Tho’ my errors and wrecks He about me)».


Tratto da: http://www.corrierecaraibi.com/FIRME_MBlondet_081029_Ezra.htm

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