martedì 22 giugno 2010

Perché siamo contro questa «democrazia»





"Secolo d'Italia", 26 giugno 1977

Per gentile concessione dell'Istituto di Studi Corporativi pubblichiamo la prima parte di un saggio dell'on. Giuseppe Niccolai, nel quale sono messe a fuoco le caratteristiche del sistema politico vigente in Italia e puntualizzati i motivi ed i termini della opposizione del MSI-DN come partito di alternativa. Il saggio sarà ospitato integralmente dalla "Rivista di Studi Corporativi"

Perché siamo contro questa «democrazia» che è degenerata nel feudalesimo e tende al dispotismo

Beppe Niccolai


«Il potere decisionale si è spostato fuori del Parlamento, nonostante la scarsa rappresentatività dei partiti. In Italia ci sono 50 milioni di abitanti, gli iscritti ai partiti si aggirano intorno ai 5 milioni, gli attivi nei partiti sono sì e no 500 mila, dei quali la maggior parte ai bassi livelli decisionali. In sostanza il sistema si regge su un potere oligarchico centralizzato. La lotta politica è lotta di oligarchie: dobbiamo avere il coraggio di dirlo. Gli altri, i più, assistono frustrati, sono "esclusi". La politica si fa nelle botteghe o, peggio, nei retrobottega e nel sottobottega. Molte cose non affiorano in alcun modo. Il cittadino operoso, l'uomo della strada, è tagliato fuori anche quando il suo valore sociale sia alto. C'è un'alienazione completa. La democrazia non è questo»

prof. Aldo Sandolli, ordinario all'Università di Roma, già presidente della Corte Costituzionale, nel corso della tavola rotonda su "La Costituzione e la crisi" organizzata dalla rivista "Gli Stati" nel dicembre 1972


Il Sistema in Italia si basa su quattro pilastri: partiti politici, enti economici, i sindacati, Regioni ed Enti locali. I rapporti fra il cittadino e lo Stato, siano questi rapporti politici, culturali, economici, sociali, amministrativi, cioè in breve l'esercizio della libertà, sono condizionati dalla presenza di questi fattori.
Nessun cittadino in quanto singolo, può esercitare il suo diritto o godere della sua liberta se non attraverso questi fattori. Lo Stato, a sua volta, non può manifestare la sua sovranità verso i cittadini se non tramite di essi.
Il rapporto naturale cittadino-Stato subisce l'intermediazione di questi fattori che vengono ad incidere sia sulla sovranità dello Stato, sia sulla libertà individuale.
Di conseguenza quando si paria di «democrazia» di «Stato democratico» o si usano termini similari si deve intendere «questa democrazia» la quale non è evidentemente, né la democrazia quale è teoricamente intesa né la democrazia quale vorremmo che essa fosse. Nei confronti della democrazia italiana si pone come una forma «sul generis» che potremmo definire «partitocratica».
La nostra polemica, essendo polemica politica, si afferma contro «questa democrazia» partitocratica che, in quanto tale, ha travolto la Costituzione, dando vita ad un sistema politico scarsamente espressivo e sostanzialmente repressivo e dove l'obiettivo finale è la scomparsa della opposizione.
Nella sua concreta manifestazione la democrazia dei partiti, degli enti economici, dei sindacati e degli enti locali si realizza in una forma di «feudalesimo moderno», in quanto l'intermediazione dell'esercizio di tutte le attività del cittadino, quindi delle sue libertà, viene regolato non dalle Leggi dello Stato ma dall'interesse dei mediatori. Analogamente la sovranità dello Stato viene usurpata ed espropriata da questa intermediazione che la esercita a suo beneficio. La lotta per inserire nelle «strutture» questi fattori è il tentativo di istituzionalizzare «di fatto» questo feudalesimo, tentativo già in parte realizzato.
La complessità dello Stato moderno rende assai più difficile che nel passato il rapporto diretto fra lo Stato e il cittadino. Questa difficoltà, che già rendeva problematica la esistenza di una democrazia in Stati a struttura più elementare, poteva essere superata, almeno in parte, a condizione di uno sviluppo parallelo della statura civile, economica, sociale, culturale e amministrativa dei singoli.
I partiti, gli enti economici, i sindacati, le autonomie locali, non solo non favoriscono questo sviluppo della coscienza politica, economica, sociale, culturale, amministrativa del cittadino, ma la mortificano, rendendo sempre più difficile il rapporto con lo Stato, sempre più ridotto il senso della libertà, sempre più tenue l'esercizio della sovranità.
Precisiamo anzitutto che quando noi parliamo dei partiti intendiamo riferirci a ciò che essi sono realmente in Italia e non a ciò che essi potrebbero essere o dovrebbero essere o a ciò che essi sono in altri Stati.
I partiti politici italiani sono caratterizzati da due fattori fondamentali:
l'IDEOLOGIA
l'ORGANIZZAZIONE.
L'Ideologia dà ai partiti una arroganza metafisica paragonabile al diritto divino su cui si fondava il potere aristocratico feudale e, in certa misura, alle verità rivelate su cui si basano le Chiese.

«Il nostro sistema politico non si dimostra In grado di imprimere alla società una direzione politica, d'orientare il sistema economico, di programmare l'attività legislativa. Il potere si arrampica su se stesso e si è trasformato da assetto istituzionale entro il quale ha luogo la produzione di risorse crescenti, in centro di accumulazione e sperpero di risorse che la società produce»

prof. Giorgio Galli, docente di storia delle dottrine politiche all'Università di Milano, nell'opera "Dal bipartitismo imperfetto alla possibile alternativa", Il Mulino


I partiti, Stati nello Stato

Per effetto dell'ideologia cosi intesa il partito cessa di essere uno strumento per il perseguimento degli interessi politici dei cittadini e diventa una verità astratta per il raggiungimento della quale i cittadini diventano strumenti.
Il partito dispensa la verità ai cittadini in nome di un dogmatismo canonico indiscutibile, ne indirizza i giudizi, ne disciplina le attività, ne interpreta gli interessi.
L'organizzazione dà ai partiti una struttura e una potenza teocratico-statale. Essa viene organizzata come quella dello Stato, con un suo esecutivo, un suo legislativo, un suo giudiziario. Si dirama lungo tutto il tessuto nazionale; a livello regionale, provinciale, comunale e, nelle forme più evolute, investe tutte le forme di attività militari, economiche, giudiziarie, amministrative.
Nelle forme più perfezionate la sovranità dello Stato si trasferisce e viene esercitata dai partiti, mentre allo Stato resta, come in un simulacro vuoto, la semplice parvenza del potere.
Per il cittadino è più agevole trascurare la legge dello Stato che la volontà del partito. Come in tutte le forme feudali, allo Stato, al principe resta la titolarità nominale del potere ma l'esercizio effettivo si trasferisce nel barone (il partito).
La stessa divisione dei poteri, apparente nella forma costituzionale, visibile negli organi dello Stato, scompare nella realtà dinamica del partiti.
È il partito che, nei suoi organi, stabilisce l'azione dell'esecutivo e le deliberazioni del legislativo e dirige le decisioni del giurisdizionale.
È nel partito che si regolano i controlli, si nominano i controllori e si dirigono i controllati.
Parlamento, Governo, Magistratura, Burocrazia, Giurisdizione amministrativa, civile, penale, Esercito, Polizia, tutto viene progressivamente avviluppato, influenzato in una mostruosa unitarietà di fatto, e per il cittadino è finita,
Il partito si pone come uno Stato nello Stato così come uno Stato nello Stato era la baronia feudale.
Imprigionato nella sua dottrina e nella sua disciplina (credi, obbedisci e vota), il cittadino, lungi dall'acquisire quella espansione spirituale e quella ginnastica libera che è richiesta dalla complessità dei rapporti politici moderni, si immiserisce nel conformismo, nella paura, e nel servilismo, perde il gusto e l'orgoglio della sua personalità, teme l'isolamento, paventa la minoranza, diventa incapace di qualunque decisione o azione autonoma.
L'uomo sparisce nell'apparato; la sua pace è nel collettivo, il suo orgoglio nella maggioranza. La libertà, deviata dall'esercizio del diritto, si perde, diventa arbitrio. L'unica cosa da rispettare: le regole del partito. Chi le viola, è perduto.
Questo oggi è il partito politico nella sua realtà: non è più movimento di opinione. È caserma, totalitaria caserma.
La nostra critica si riferisce a questi partiti.


«Quando ci troviamo ad avere a che fare con un sistema in cui non succede più niente e l'equilibrio dei partiti impedisce di prendere decisioni, non possiamo più chiamarlo democratico. Un governo che non governa, non può mostrare alcun risultato allo scadere del suo mandato. La grande decadenza della democrazia moderna è causata dalla mancanza di decisioni, dall'"immobilismo", dall'impotenza politica cui l'hanno condotta la molteplicità dei partiti e le loro controversie»

Michael Freund, docente di scienze politiche all'Università di Kiel, nell'opera collettanea "La democrazia alla prova del XX secolo", Il Mulino


Lo spreco istituzionalizzato

La logica dell'edonismo, intesa quale perseguimento del profitto, ha spinto alla ricerca dello strumento più idoneo per superare gli ostacoli che ad esso si opponevano.
Legata all'uomo che l'aveva originata, l'attività economica ne subiva le limitazioni. Limitazioni nel tempo, essendo legata al breve ciclo della vita umana; limitazioni nello spazio, limitazioni, soprattutto, nell'essenza stessa dell'uomo troppo soggetto alla influenza dei sentimenti e dello spirito che ne distraggono gli atti verso orizzonti non strettamente economici e, spesso, dichiaratamente antieconomici.
Lo strumento solamente e puramente economico è la azienda razionale, la ditta, la società, l'ente illuminato nel tempo, più libero nello spazio e libero da ogni impaccio etico e sentimentale.
Il capitalismo, come tale, sorge con la creazione di questo strumento. Per la sua stessa logica lo strumento non solo si svincola dall'uomo e dalla natura etica, giuridica e sentimentale che lo informa, ma che lo subordina ai suoi fini.
Lo strumento diventa finalità astratta alle cui esigenze l'uomo deve essere dimensionato. Forte di questa sua astrattezza razionale e della sua stabile vasta e rigida organizzazione, l'Ente economico, si avventura nella dinamica dei rapporti con tutte le componenti della Società. I suoi interessi si mutuano, si intrecciano, si collegano con quelli dello Stato, dei partiti, delle autonomie. Nel perseguimento del profitto e per il perseguimento del profitto tenta di subordinare tutti ai suoi fini con la sua arma naturale: il denaro.
L'ultimo anello dell'evoluzione degli Enti economici è costituito, in Italia, dagli Enti di Stato.
Nella sfera economica essi si pongono come i partiti nella sfera politica.
Il progressivo estendersi del fatto economico quale elemento fondamentale della vita moderna e le crescenti responsabilità dello Stato in questo settore e la graduale inidoneità dagli uomini ad assumersi, anche in questo campo, la responsabilità di un rapporto diretto giustificano ed agevolano il sorgere e il potenziarsi di questi elementi di intermediazione. Essi acquistano finalità pubbliche, sovranità, dominio, indipendenza, predominio rispetto ai cittadini ed allo Stato. L'attività economica, come nella sfera politica, viene nei singoli diminuita e mortificata. Come i partiti politici anche gli Enti economici hanno, come metastasi, la naturale esigenza ad espandersi.
DI qui nasce la loro alleanza con i partiti ai quali elargiscono potere finanziario in cambio dell'appoggio politico. Sull'usurpazione della sovranità dello Stato e sulla oppressione dei diritti dei singoli nascono così le baronie economiche.
La natura dell'Ente economico è varia e si estende per tutta la gamma delle sfumature dal perseguimento puro e semplice del profitto sino al perseguimento dei fini etici. Nell'Ente economico di Stato il fine edonistico si fonde con le finalità etiche dello Stato.
Nell'impossibilità di perseguire le sue finalità edonistiche l'Ente di Stato si giustifica con il finalismo dei suoi scopi etici e nell'impossibilita di raggiungere questi ultimi oppone le esigenze delle sue mete economiche.
Ciò gli consente volta a volta di avvalersi della sovranità e dell'autorità dello Stato e della cinica duttilità del dinamismo mercantile avvalendosi della solida base di un mancamento pubblico che lo mette al riparo dai rischi dell'attività economica. In realtà il finalismo degli Enti finisce per non essere né etico né economico ma puramente politico-clientelare.
Quale sia l'influenza degli Enti economici sulla vita democratica appare oggi con ogni evidenza attraverso la lotta, in un mare di sprechi, puramente feudale, che si svolge fra di essi per le investiture e per l'acquisto di privilegi e sfere di influenza e nella lotta, non meno sintomatica che essi conducono, volta volta, per acquistare influenza politica e per appoggiare le azioni dei partiti che si ripromettono di ricambiarne l'alleanza con accresciuto prestigio. È una lotta a coltello, che non risparmia nessuno, con teste che cadono e altre che salgono. Il PCI, giunto per ultimo nella area del potere, si comporta come gli altri, peggio degli altri.
L'intrico dei rapporti per questi Enti, la mole del potere finanziario di cui dispongono, i collegamenti fra loro e le altre forme feudali politiche, sociali e amministrative, sono una delle caratteristiche salienti della cosiddetta democrazia «all'italiana».
La triplice contro la partecipazione
Le forze de! lavoro sono rappresentate dai sindacati. È stato scritto che nemmeno i Sindacati, come i partiti, svolgono un ruolo «fisiologico» più che portare la voce dei lavoratori ai loro vertici, essi inquadrano, controlla,o e spesso spengono la protesta dei lavoratori e costituiscono così delle cinghie di trasmissione verso la base del potere economico politico (cioè del regime) che, in tal modo, neutralizza la protesta e ricostituisce il suo equilibrio. Le tensioni e le polemiche che ogni tanto si riproducono non arrivano mai a conclusioni di rottura, e puntualmente e disciplinatamente, tra richiami reciproci al «senso di responsabilità», le vertenze si compongono.
Nei momenti di crisi come questo si scopre il ruolo profondamente alienante di queste costituzioni corrose dalla partitocrazia e che pure in se dovrebbero essere strumenti di partecipazione. I famosi scollamenti fra base e vertice denunciati oggi in partiti e sindacati sono fenomeno logico e abituale. Solo che vengono avvertiti e denunciati soltanto nei momenti difficili, quando ci si rende conto più direttamente che il sistema di delegare continuamente il potere (ai partiti, ai sindacati, agli Enti economici, agli Enti locali) non paga, non rende, non conviene.
Noi pensiamo che si debba andare più in là. Anche qualora la crisi economica non sussistesse, e partiti e sindacati potessero svolgere tranquillamente il loro ruolo di enti «assistenziali» che a loro compete in questo sistema, noi rifiuteremmo questa situazione, che non vede il cittadino o il lavoratore protagonista attivo delle sue scelte, ma lo relega ad oggetto di decisioni altrui.


«Il nostro sistema politico non si dimostra in grado di imprimere alla società una direzione politica, di orientare il sistema economico, di programmare l'attività legislativa. Il potere si arrampica su se stesso e si è trasformato da assetto istituzionale entro il quale ha luogo la produzione di risorse crescenti, in centro di accumulazione e sperpero di risorse che la società produce»

prof. Giorgio Galli, docente di storia delle dottrine politiche all'Università di Milano, nell'opera "Dal bipartitismo imperfetto alla possibile alternativa", Il Mulino


Il vero potere è fatto di responsabilità. Fino a quando il lavoratore non rivendicherà la responsabilità nella impresa, non soltanto il «potere operaio» rimarrà un sogno storico. ma anche la sua dignità di cittadino sarà avvilita. Potrà avere più alti salari e anche una vita più comoda, ma sarà sempre un elemento fungibile e quindi sostituibile, nella vita dell'impresa. Come tale sarà oggetto a subire la prepotenza inevitabile del capitale, e all'occorrenza tolto di mezzo. Nella migliore delle ipotesi questo lavoratore-assistito, vezzeggiato, tutelato da un sindacato-madre che lo protegge da ogni rischio, sarà sempre un assistito, mai un cittadino.
Purtroppo questa musica non piace ai sindacati italiani, che seguendo appunto la filosofia ufficiale del sistema partitocratico (non impicciarti che ci penso io) rifiutano a priori di porsi il problema reale della partecipazione. Si è sentito più volte proclamare pubblicamente, da parte dei loro leaders, il principio indiscutibile per cui «il padrone faccia il suo mestiere di padrone e il lavoratore il suo mestiere di lavoratore». Si tratta di un principio inaccettabile. Se infatti esso avesse valore, allora non ci si dovrebbe lamentare poi della logica capitalistica, pretendere riconversioni industriali e nemmeno lagnarsi della disoccupazione e dei licenziamenti; il padrone fa appunto il suo mestiere cercando il massimo profitto. Non si può contestare questo dato di tatto (che è pure quello che più scandalizza nel capitalismo) all'interno della stessa logica. Bisogna invece che il lavoratore si ponga, anzi si imponga come soggetto attivo nella vita dell'impresa, assumendosi la responsabilità della gestione e della proprietà. La socializzazione dell'impresa non è quindi l'ancora di salvezza (come intendono alcuni) del capitalismo, ma l'unico modo concreto per superarlo.
Concordiamo con questa analisi. Ce di più. Oggi il Sindacato allontana il lavoratore dal suo fondamentale interesse di collaborare al fenomeno produttivo quale presupposto di ogni sua azione rivendicativa e dalla conoscenza tecnica della dinamica della produzione e della gestione.
Il lavoratore, socio naturale dell'azienda, viene allontanato dalla conoscenza del mercato e da quella della fisiologia aziendale, cioè dagli elementi basilari sui quali fondare i propri diritti e attraverso la quale documentarli.
L'organizzazione sindacale, quindi, trasforma la sua mediazione in fine a sé stante secondo la stessa dinamica dei partiti e degli Enti economici: da strumento del lavoratore riduce il lavoratore a strumento delle sue finalità, in concreto cinghia di trasmissione del PCI.
Diventa baronia sociale che impedisce allo Stato in nome della sua autonomia l'espletamento del suo naturale dovere nell'inserire nel fatto economico ed edonistico l'elemento etico della giustizia ed impedisce nel contempo al lavoratore di ottenere questa giustizia in sede politica rivendicando l'ausilio dello Stato e in sede economica precludendogli il colloquio con l'altro fattore della produzione, il capitate, ed ostacolandogli la conoscenza della dinamica aziendale e settoriale.
La lotta, attraente ma vano miraggio del lavoratore, lo porta, finché soccombente, a vedere frustrate le sue speranze e quando è coronata da successo, attraverso l'avvento della «classe» al potere a vedere ancora frustrati i diritti e gli interessi della categoria e del singolo.
In una prima fase il lavoratore lotta per assicurare la vittoria della classe e in un secondo tempo per assicurare la potenza dello Stato; in entrambe perde il premio ineguagliabile della giustizia.
Ma l'organizzazione sindacale in quanto tale fonda su questo la sua potenza, intreccia i suoi rapporti con i partiti e con gli Enti economici e si inserisce nella corte baronale fra lo Stato e il lavoratore.

Giuseppe Niccolai


«Se ubbidire alle leggi dello Stato diventa un pericolo significa che lo Stato non funziona. Il rimprovero va all'impotenza dello Stato. Si è formato un nucleo di violenza tale che i cittadini si sentono minacciati. La prima funzione dello Stato è la protezione dei cittadini. Se i cittadini hanno paura, vuol dire che lo Stato manca alle sue funzioni. È impossibile che la fine della prima Repubblica possa essere evitata»

prof. Norberto Bobbio, "Corriere della Sera"


"Secolo d'Italia", 8 luglio 1977



Pubblichiamo, per gentile concessione dell'Istituto di Studi Corporativi, la seconda ed ultima parte del saggio che l'on. Giuseppe Niccolai ha scritto per la rivista dell'Istituto, nel quale sono messe a fuoco le caratteristiche del sistema politico vigente in Italia e puntualizzati i motivi ed i termini della opposizione del MSI-DN ad esso. La prima parte è stata pubblicata sul "Secolo" di domenica 26 giugno.


Ripensare lo Stato in termini di efficienza e libertà

Giuseppe Niccolai

«Ci avviciniamo forse -non vorrei usare parole o metafore drammatiche- a quello che, nel rito della corrida, si chiama il momento della verità. Sono infatti emerse, e si sono imposte da ultimo, nella nostra vicenda politico-istituzionale, due specifiche "sfide" (ogni "sfida" implicando per il sistema che deve affrontarla la provocazione ad una "risposta") ed a queste sfide ormai non sembra che la "risposta" si possa più eludere. Che ciò non sia solo frutto di una mia valutazione si può ben dire, quando si pensi che un personaggio politico insospettabile, un vecchio "leader", circondato universalmente dalla stima della classe politica e dalla simpatia popolare, come il senatore a vita Nenni, ha affermato pochi giorni or sono di "non temere tanto il 'golpe', quanto il suicidio della democrazia"»

prof. Serio Galeotti, ordinario nell'Università di Pavia, nel corso del dibattito su
"Crisi: che fare nel sistema", organizzato dalla rivista "Gli Stati", nel 1974


Le Autonomie locali sono caratterizzate in Italia dalla tendenza ad una sempre più accentuata espansione del loro potere politico. In questi ultimi tempi l'espansione non conosce limiti. La Commissione parlamentare per le questioni regionali, presieduta dal comunista onorevole Fanti, chiamata a dare il proprio parere sullo schema di decreto delegato ai sensi dell'articolo I della legge 22-7-75 n. 382 ha approvato (articolo 4) una norma che consente alle Regioni di svolgere attività promozionali «anche all'estero».
Sotto il pretesto di acquisire una più completa indipendenza nella gestione della loro opera di autogoverno amministrativo esse tendono in realtà, i Comuni come le Regioni, a sottrarre allo Stato autorità e sovranità politica. Nella polemica contro il progressivo affermarsi di questa forma di feudalesimo amministrativo si è posto l'accento su un aspetto appariscente quanto banale del fenomeno, trascurando quello che è viceversa il suo carattere fondamentale, il pericolo di una involuzione antirisorgimentale, di un ritorno a sentimenti antiunitari, giustificato solo da manifestazioni superficiali, non costituisce, a nostro avviso, il problema di fondo dell'esasperazione autonomistica.
Le Regioni, come le Province, i Comuni, nella moderna estrinsecazione della loro autonomia trovano più motivi di azione unitaria che centrifuga.
Il fatto è che questa azione unitaria ed accentratrice, in luogo di manifestarsi organicamente ed istituzionalmente, cioè attraverso norme e controllo, si manifesta in senso politico, sociale ed economico attraverso la realtà dei partiti, degli Enti economici e dei sindacati, fuori cioè e contro lo Stato. Nel mentre gli Enti locali, Regione in testa, rivendicano un allentamento dei vincoli e dei controlli normali, una libera gestione dei mezzi finanziari una più autonoma decisione e un più largo potere deliberativo, essi (Regione ed Enti locali) irrigidiscono i vincoli e la dipendenza organica unitaria, disciplinare, nel campo politico rendendo più rigido il vincolo tra le rappresentanze e il potere periferico dei partiti, degli Enti e del Sindacati e le loro organizzazioni centrali.
Quella sovranità ed autorità che strappano allo Stato non la restituiscono, in termini di libertà al cittadino, ma, ancora aumentata, alle baronie politiche, economiche e sodali alle quali si collegano e si sottomettono.
Le Regioni, gli Enti locali si inseriscono così, sottraendosi allo Stato e alle sue Leggi, nel tessuto feudale, in un nuovo ordine sui generis con le sue leggi, i suoi poteri, i suoi mezzi contrario, nel contempo, sia agli interessi dello Stato sia agli interessi del singolo cittadino.
Come l'azione politica, economica, sociale anche l'azione amministrativa si inquadra cosi nella finalità dei partiti rosi dalla partitocrazia, degli Enti Economici macerati dal clientelismo, dai Sindacati cinghie di trasmissione del partilo egemone e sorgono le nuove baronie che si inseriscono nel vario gioco feudale fra il singolo cittadino e lo Stato dando vita alla democrazia feudale, il tiranno «senza volto» dei tempi odierni.
In questa schematica ricognizione della realtà di fatto che viene definita «democrazia» abbiamo delineato quelli che ci sembrano i più appariscenti aspetti che la caratterizzano.
Dall'esame più dettagliato e da un'analisi più approfondita di ciascuno di essi si trarrà la chiara visione del completo «tessuto feudale» che attraverso diramazioni e collegamenti avvolge organicamente le attività dei singoli cittadini e l'essenza e le funzioni dello Stato.
Questa rete di vassalli e valvassori politici, economici, sociali e amministrativi; le loro alleanze e inimicizie, le loro omertà e concorrenze sono quella che viene comunemente definita «democrazia» in Italia, quella democrazia per la quale, secondo Amendola, gli Italiani dovrebbero battersi fino all'ultimo sangue per difenderla.
Quando noi ci riferiamo all'imperativo, morale prima che politico, di ripensare lo Stato contro l'attuale sistema, intendiamo questo stato di cose e non le postulazioni astratte dei filosofi della politica o le diverse manifestazioni tipiche di altre società o altri paesi in particolari situazioni e condizioni economiche e storiche.
La prima conclusione che ci pare si possa trarre è che questo stato di cose, oltre ad avere travolto la Costituzione repubblicana, ha determinato lo sconvolgimento dei rapporti fra Stato e cittadino, inserendosi fra di essi ed alterando le finalità naturali, ledendo cioè l'autorità e la sovranità dello Stato e le libertà civili e politiche dei singoli ed ostacolandone, non solo l'armonico evolversi, ma la stessa soluzione dei problemi essenziali della società.
Dall'esame della situazione emergono i termini dell'azione politica, le sue finalità, il metodo che si debba prefiggere un movimento di opinione che intenda, nel confronto, mutare la realtà attuale, il sistema, per dar vita ad un nuovo ordine che sappia valorizzare ed esaltare le libertà civili e politiche del cittadino. Finalità perciò intese ad instaurare, in termini moderni, nuovi originali rapporti fra l'uomo e lo Stato reazione, cioè idea di un nuovo modo di concepire lo Stato nelle dimensioni che gli sono imposte dall'attuale complessità, della vita associata nazionale e internazionale (siamo nell'era nucleare: tutti i rapporti sono saltati), che impongono allo Stato l'assunzione di pesanti responsabilità e richiedono da parte sua una assunzione di poteri e di autorità prima sconosciuta. Creazione, cioè idea di un nuovo modo di concepire l'uomo che deve a sua volta elevare i sentimenti e la propria statura alle nuove dimensioni dello Stato e della vita politica, economica, sociale e amministrativa. Noi sosteniamo che questa armonia di rapporti non può stabilirsi con il trasferire le dimensioni dell'uomo nell'artificio della classe, del partito, dell'Ente, del sindacato.
II rapporto uomo Stato è un fatto diretto e naturale ed un incontro fra l'uomo e lo Stato deve realizzarsi con il rispetto dei reciproci attributi di libertà e autorità.
Quando, come ora, la classe, il partito, l'ente, il sindacato ledono la libertà e l'autorità significa che gli strumenti creati per rendere più armonici i rapporti fra il cittadino e lo Stato hanno tradito il fine che si proponevano e vanno sostituiti.
Che questo turbi il conformismo di coloro che con l'arco costituzionale, si sono seduti a tavola e sollevi le ire di chi ha la pancia piena, non muta la realtà delle cose.
Noi sosteniamo che oggi è necessario combattere lo strapotere dei partiti, lo schiavismo che esercitano sul cittadino, il loro clericalismo ideologico, la loro struttura di falso tecnicismo rappresentativo.
Se è vero, come è vero, che occorre una intermediazione fra il singolo e lo Stato, cioè uno strumento che renda più chiara l'opinione e più efficace l'azione per una genuina rappresentanza degli interessi politici occorre che questo strumento si dimostri idoneo nei fini e nei metodi. Se questo «strumento», anziché difendere la libertà del cittadino, la uccide, significa che quello «strumento» non è più idoneo a rappresentare l'Intermediazione cittadino-Stato. Quando poi questo strumento, oltre a mortificare il cittadino, porta, con le sue crisi ricorrenti (in trenta anni 35 governi!!!), alla degradazione della comunità nazionale, dei suoi valori morali, delle sue attività produttive, della sua stessa vita associata perché producendo emarginati e disoccupati, porta alla rivolta, al terrorismo, ciò significa che o si ripensa lo Stato in termini di efficienza e di libertà, o il comunismo ha partita vinta.
Quali effetti ha sulle istituzioni rappresentative lo Stato feudale?
Lo Stato feudale, roso dal di dentro dalle baronie feudali non è capace di esprimere governi stabili, organici, funzionali. In questa Repubblica la durata media dei governi è di nove mesi; la loro composizione non è organica, cioè non corrisponde ad una unità di criteri operativi, ma è il risultato di complessi dosaggi di partito, di corrente, oltre che di provenienza regionale e tra deputati e senatori; non hanno di conseguenza i caratteri più elementari della funzionalità. Nessuna azienda, anche di modeste dimensioni, si salverebbe dal fallimento se dovesse cambiare continuamente l'amministratore delegato, invertire continuamente il ruolo dei direttori; avere dei dirigenti che rispondono ad interessi diversi e si paralizzino a vicenda (non solo il democristiano contro il socialista, ma anche il fanfaniano contro il moroteo, ecc.): ed una gestione resa sempre precaria dalla spada di Damocle dei franchi tiratori, del voto di sfiducia, o addirittura del semplice articolo di un segretario di partito che la costringa a dimettersi.

«Se avremo la Grande Coalizione la seconda Repubblica sarà un sistema scarsamente espressivo e sostanzialmente repressivo, e quindi non pluralistico. Innanzi tutto scomparirà la opposizione, quella opposizione la cui funzione è essenziale a un vero sistema democratico, senza la quale c'è solo un dispotismo più o meno illuminato, e non un potere responsabile, perché controllato da un altro vero potere. Scomparirà l'opposizione, perché i partiti del centro sinistra verranno facilmente schiacciati dato che il loro naturale elettorato verrà assorbito dalla DC e dal PCI: i partiti che non vorranno stare al gioco, verranno emarginati fra i fascisti; verrà impedito alla società civile di esprimersi in modo autonomo e consistente, al di fuori dei due canali che detengono il potere. Insomma: diventerà inoperante nella nostra Costituzione tutta quella parte di articolazioni istituzionali attraverso le quali lo Stato liberale garantiva ai cittadini libertà ed eguaglianza. Perché la Grande coalizione, operante nei Comuni, nelle Province, nelle Regioni, in Parlamento avrà, come sedi decisionali, sempre meno i luoghi previsti dalla legge, sempre più le segreterie dei partiti, la cui forza reale sarà, come ieri, "la tessera del pane". Questa gigantesca opera di sottogoverno sarà accompagnata e coperta da una gigantesca manipolazione dall'alto della partecipazione, per imporre alla società nuovi contenuti "popolari". Il regime ha già la sua ideologia: all'Università si comincia ad insegnare la cultura antifascista, dimenticando che la coltura, come ci ha insegnato Croce, non è né fascista né antifascista, ma solo cultura, e il resto è solo propaganda»

Nicola Matteucci, direttore de "il Mulino" nel saggio "La Grande Coalizione"
pubblicato nel gennaio 1971


Le conseguenze di questa cronica debolezza e instabilità dello «stato feudale» sono sotto gli occhi di tutti, fallimento e bancarotta dell'economia e dello Stato di diritto, espansione della violenza, violenza che non risparmia più nessuno, nemmeno coloro che si rimpiattono dietro la finestra.
Non c'è tempo da perdere se si vuole salvare la libertà. Il primo passo da compiere: battersi per l'elezione popolare diretta del Capo dello Stato. Anche per puntare all'efficienza e battere la crisi economica.
Nessun disegno di programmazione, non solo in economia, ma anche in ogni altro settore d'intervento pubblico, può avere basi realistiche con dei governi la cui vita media è di nove mesi. L'impotenza dei governi di espressione popolare favorisce solo la proliferazione di altri centri di potere, pubblici, parapubblici e privati, in una confusione anarchica e arbitraria che ricorda, come abbiamo più volte scritto, in versione moderna gli antichi sistemi feudali. Se vogliamo tradurre in episodi le considerazioni che abbiamo sviluppato esaminando il sistema non ci sarà difficile individuare le baronie: FIAT, ENI, EFIM, EGAM (defunto), segreterie di partito, direttivi di corrente, poi partiti, sindacati, enti locali, tutti con la loro capacità incontrollata di indebitamento, e via dicendo. Si tratta di centri di potere che in un sistema ordinato hanno ciascuno una sua precisa, legittima, apprezzabile e insostituibile collocazione; ma in un sistema strutturalmente inefficiente ed in crisi sono fatalmente portati a riempire altri vuoti di potere, sconfinando dalla loro sfera, usurpando funzioni che non sono le loro, sovrapponendo interessi particolari a quelli della collettività, divenendo fonti di continuo arbitrio dei potenti contro i deboli.
È purtroppo comprensibile che questo tipo di pseudo-democrazia feudale sia sempre meno credibile e provochi sempre più vaste crisi di rigetto fra i giovani, fra gli strati popolari più indifesi e si regga solo sulla paura di cambiamenti da cui la qualità della vita sociale potrebbe uscire perfino ulteriormente peggiorata. Ma a questa disgregazione dei tessuto sociale non si pone solo la drammatica alternativa comunista. Si può e si deve indicare, come alternativa ad un sistema precario e sempre più difficilmente difendibile, un modello di democrazia credibile.
Si può farlo. Abbandonando le ottuse discriminazioni collegate con la feticistica teoria dell'arco costituzionale. Che la Costituzione resti così, immutabile anche in certi meccanismi secondari che ci hanno regalato trentacinque crisi di governo e due crisi di legislatura, può far comodo solo ai comunisti. In un sistema come questo, soggetto per la sua strutturale debolezza a tutti i ricatti, una partecipazione dei comunisti al potere diventerà inevitabile. Loro lo sanno e nulla vogliono mutare. Infatti i comunisti, immancabili patroni di tutte le riforme. L'unica riforma che non vogliono è quella dello Stato, è quella che in una moderna concezione istituzionale saldi la libertà con l'efficienza.
La realtà è che i comunisti non hanno bisogno di buone Istituzioni per esercitare il potere. In Romania, in Bulgaria hanno governato persino un paio d'anni con la monarchia, prima di impossessarsi definitivamente di tutte le leve di comando. Per loro, sia la monarchia balcanica che la partitocrazia feudale italiana, non rappresentano un ostacolo rilevante all'esercizio effettivo del potere, giacché una volta messo il piede nella stanza dei bottoni, il resto non lo fanno certo con delle Istituzioni fatiscenti, ma con le strutture del partito, con una gerarchia parallela; e quella sì che funziona!
Sono gli uomini liberi che hanno assoluto bisogno di buone istituzioni, moderne, funzionali, per riuscire a governare. Ed è agli uomini liberi e pensosi delle sorti d'Italia che ci appelliamo affinché abbandonino la tetra e mortificante superstizione dell'arco costituzionale per cercare insieme un modello più credibile di democrazia. Questo appello può apparire ingenuo, dal momento che persino uomini come Cadorna, come Pacciardi, come Vinciguerra, figure emblematiche dell'antifascismo, sono stati addirittura accusati di fascismo per aver proposto una nuova Repubblica, ispirata al nuovo modello gollista francese, che in Francia oggi è pienamente accettato anche dai socialcomunisti come soluzione al clima di disfacimento assai simile al nostro, in cui versava la IV Repubblica. Ma il dilemma resta ed è chiaro e perentorio: vogliamo provarci come Parigi o finire come Praga?
I politici italiani sono di tre tipi. Ci sono i comunisti, che hanno già modelli realizzati all'estero, ma non osano prenderli come punti di riferimento e preferirebbero farli dimenticare. Ci sono dei democratici al governo, che non vogliono guardare neanche loro ai modelli democratici stranieri, assai più funzionali del nostro, perché i loro giochi di potere sono troppo strettamente legati ed invischiati nel sistema (feudale) attuale e non vogliono cambiarlo. Ci sono infine uomini liberi all'opposizione che hanno lo sguardo aperto ad ogni confronto. Vedono i regimi comunisti, sanno che cosa rappresentano, ne conoscono l'orrore e non vogliono che esperimenti di tal genere vengano compiuti sulla pelle del popolo italiano. Vedono altri sistemi di libertà, la Repubblica presidenziale francese e americana, il Cancellierato tedesco, il governo inglese del Primo Ministro, sanno che sono migliori del nostro e vorrebbero che anche la cosiddetta democrazia italiana si evolvesse su qualcuno del modelli più aggiornati e funzionali.
Ecco, se stare dentro l'arco costituzionale significa rendersi ciechi ad ogni confronto, non desiderare qualcosa di meglio per l'Italia «tanto quello che vale è la propria pancia», allora, soprattutto per una ragione di pulizia morale, ci sentiamo fieri di essere fuori dell'arco costituzionale. E pensiamo che gli uomini liberi dovranno, o prima o poi, decidersi ad uscirne se vorranno salvare la causa della libertà in Italia.

Giuseppe Niccolai

«Noi sappiamo dunque che nessun sistema politico è pii forte di una democrazia fondata su basi sincere e funzionali. Sappiamo che il complesso di paralisi e malcostume contro il quale insorgiamo non è la democrazia, ma è la frode antidemocratica. Sappiamo di rivendicare diritti elementari di ordini democratico: quello di votare non per una lista di uomini ignoti, decretata da caporali di partito, ma per singoli uomini, la cu personalità ci sia in qualche misura nota e gradita; quello d determinare attraverso il voto almeno gli indirizzi politici d fondo: cosa che con l'attuale sistema non accade, come documenta il fatto stravagante che uno stesso parlamento, senza nuova consultazione popolare, possa esprimere di centro, di centro sinistra, di sinistra. Domandiamo soprattutto che il potere effettivo risieda in quegli organi che ne sono formalmente investiti dall'ordinamento costituzionale; e sappiamo che per ottenere questo, dobbiamo dare ad ogni organo un sicuro margine di libertà e autonomia: bisogna che i deputati non siano alla mercé dei caporali di partito, come bisogna che i governi non siano alla mercé dei deputati e che i giudici o i professori non siano alla mercé del governo. Bisogna che i partiti non siano ridotti alla triste necessità di corrompere partiti e deputati per conservare il potere, né abbiano gli strumenti per farlo: bisogna che i governi abbiano davanti a loro con certezza il tempo limitato che è tuttavia strettamente necessario per operare responsabilmente e per offrire al giudizio degli elettori, alla scadenza elettorale, almeno un saggio di lavoro costruttivo organicamente condotto.

Giuseppe Maranini, già Preside della Facoltà di Scienze Politiche "Cesare Alfieri"
di Firenze, ne "Il tiranno senza volto», Bompiani, 1963

tratto da: http://www.beppeniccolai.org/

Nessun commento:

Posta un commento